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Asili nido: 51 milioni a Torino, 16 a Napoli, 0 a Casoria. Chiederete, Casoria chi? Ecco la risposta: popoloso comune dell’hinterland napoletano, per la precisione gli abitanti sono 77mila, i bambini con meno di quattro anni 2.200; e, quindi, nessun nucleo familiare di questo pezzo di territorio italiano e nessuno dei 2.200 bambini ha diritto neppure a un solo euro per un asilo nido pubblico. Altamura, Puglia, sempre formalmente Italia, 70mila abitanti, 3.500 bambini, spesa per gli asili: zero euro.

Questa è (l’ex) Italia, così è se vi pare, direbbe Pirandello, perché come è di indubbia evidenza i diritti di cittadinanza sono aboliti. Anzi, spieghiamoci meglio: esistono questi diritti al cubo se hai la ventura di nascere a Torino, o ancora di più in Brianza, esistono poco, direi ingiustificatamente attenuati se nasci a Napoli, sono eliminati del tutto se hai la sfortuna di venire al mondo in quel di Casoria o di Altamura.

SCIPPO AL SUD: I COMUNI SONO IN RIVOLTA

Questo giornale ha messo in guardia chi ci governa dal primo giorno di sua uscita in edicola: tra una lesione e l’altra del titolo quinto della Costituzione, si è attuata sotto traccia una formula perversa di federalismo all’italiana che ignora perfino le regole della legge Calderoli (sanità, scuola, trasporti: vanno fissati criteri base per tutti) e che, soprattutto, attraverso il marchingegno della spesa storica, continua a dare di più ai ricchi e di meno ai poveri.

Ogni anno di più al ricco, e di meno al povero. Ogni anno di più, e ogni anno sempre di più ingiustificatamente.

Adesso, addirittura con la proposta di autonomia differenziata, le due regioni ricche che più ingiustificatamente di tutte hanno saccheggiato il bilancio pubblico togliendo ai cittadini del Sud e regalando ai cittadini del Nord, hanno alzato il tiro e pretendono di tenersi direttamente la cassa in casa e, cioè, di abolire anche formalmente la nazione e di legalizzare così procedure arbitrarie e pericolosamente distorte. Ci eravamo permessi di mettere in guardia due governatori che stimiamo molto, come Zaia e Fontana alla guida di Veneto e Lombardia, facendo capire loro che c’era il rischio concreto, come dice un vecchio detto popolare, di “aprire gli occhi ai cecati”.

Bene, è esattamente quello che è accaduto perché, come ci rivela in apertura di giornale Antonio Troise, ben 61 Comuni di Campania, Molise e Calabria hanno presentato ricorso al TAR perché intimi ai Comuni ricchi di restituire il maltolto per il 2018 e per il 2019; altri 4 Comuni pugliesi si sono rivolti direttamente al Capo dello Stato per le stesse ragioni e con le stesse motivazioni.

LA VISTA RECUPERATA

Sono le prime palle di neve di una valanga rovinosa che può mettere in seria difficoltà le grandi montagne del Nord: ormai al Sud si parla solo di diritti di cittadinanza, sono tutti lì a fare i conti e non si riesce a capire ad esempio perché, più o meno a parità di popolazione e con un tasso di clientelismo nettamente superiore (55 e 50mila addetti contro 40mila) Emilia Romagna e Piemonte debbano ricevere un miliardo di spesa pubblica in più rispetto alla Puglia. La vista improvvisamente recuperata sta armando la mano di studi legali agguerriti e non si escludono iniziative clamorose, ai massimi livelli, diretti a rimettere in discussione i trasferimenti pubblici degli ultimi dieci anni con meccanismi di restituzione. Forse, si impone anche in un Paese senza guida come il nostro, una riflessione concludente sull’esperienza delle Regioni, ma non per accentuare differenze e autonomie quanto piuttosto per percorrere velocemente il cammino inverso. Ne trarrebbero giovamento tutti. Padri della patria come Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi, ci avevano avvertiti in tempi non sospetti. Un uomo di Stato del valore di Pellegrino Capaldo, da queste colonne, ha parlato della riforma regionale come di una riforma sbagliata e dell’esigenza di ritornarci su. Ha ragione da vendere.

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Il Giro d’Italia fa prendere un volo ai suoi ciclisti per andare a correre boccheggianti in Israele o per andare a scollinare nella noia dei Paesi Bassi, ma ignora sistematicamente il Mezzogiorno d’Italia. L’edizione 2019 parte da Bologna il prossimo 11 maggio, gran finale all’Arena di Verona, 21 tappe, 3580 chilometri. Scende da Roma in giù una sola volta, toccata e fuga al santuario di San Giovanni Rotondo per rendere omaggio al frate di Pietrelcina. Quando si scelse nel 2016 di fare tappa nel cuore del deserto israeliano, a un passo dai kibbutz, tra intifada e tamburi di guerra, gli organizzatori non usarono mezze parole: “Per fare marketing è meglio il deserto tra Haifa e Tel Aviv che la desertificazione dello Stivale”.

SIAMO DIETRO IL GABON

Non basta la fuga dei cervelli, Claudio Marincola documenta anche quella dei calciatori, i tesserati in Lombardia sono poco meno di 182mila, in Veneto 102mila, 82mila in Emilia Romagna, 83mila in Toscana, ma in Calabria ci fermiamo a 31mila, in Puglia a 47mila e in Sicilia a 51mila. Come stadi al Sud siamo dietro il Gabon, il Paese che ha organizzato la Coppa d’Africa, parola di Gianni Infantino, presidente della Fifa. Nei sei principali campionati maschili e femminili dei tre sport più popolari e seguiti – calcio, basket e pallavolo – troviamo un totale di 86 squadre partecipanti di cui solo 10 nel Sud.

Dieci su 86 significa che anche nello sport, come nell’economia, le due Italie appartengono a Paesi diversi. Fino al 2008/2009, appena prima della Grande Crisi Sovrana e del federalismo selvaggio voluto dal Nord, le squadre erano il doppio e, se volgiamo lo sguardo ancora più indietro, ricordiamo la stagione epica del Napoli del Pibe Maradona, il primato nazionale di Caserta nel basket maschile degli anni Ottanta, Matera in testa nel volley femminile che ora si ferma a Firenze, il Trani del calcio femminile di Carolina Morace. Oggi di fatto, tranne il Napoli di De Laurentis e le multiproprietà di Bari e Salernitana, il Sud è retrocesso. Quanto c’entri tutto ciò con il taglio della spesa pubblica al Mezzogiorno non è né automatico né semplice da dimostrare. Però, i fatti sono eloquenti, parlano da soli.

INGIUSTIZIE ITALIANE

Ci documentano che c’è stata una politica di esclusione che ha riguardato un’intera comunità, le regioni meridionali e insulari, che ha visto peraltro crescere la sua pressione fiscale in misura più rilevante di quanto sia cresciuta al Nord. Sono ingiustizie italiane che nessuno vuole vedere, ma esistono e rivelano la cattiva coscienza di chi ha in mano i cordoni della borsa. Sarà sempre troppo tardi quando si comincerà a fare il cammino inverso. Non perdiamo la speranza, ma vediamo crescere gli egoismi. L’autonomia differenziata ne rappresenta l’apice. Il Paese dei 20 staterelli non ha futuro. Produce solo macerie e ci ricorda un’Italia che pensavamo non esistesse più. Quella del ragazzo di Calabria che correva sui campi di granturco ma per le gare doveva trasferirsi al Nord. Poveri noi!

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A questo ci hanno ridotto colpe nostre certo, ma ancora di più, molto di più, anni e anni di saccheggio nordista di fondi pubblici e di lesione costante dei valori fondanti della Repubblica e di un’equa economia redistributiva. Fino a che la parte più avveduta del Nord non prenderà in prima persona l’iniziativa per una più corretta redistribuzione delle poche risorse pubbliche disponibili, il Paese nel suo complesso andrà, ovviamente in modo diseguale, sempre più indietro e non potrà mai neppure aspirare alla crescita che merita. Per chi si balocca in polemiche quotidiane che mascherano l’immobilismo, è arrivato il momento di occuparsi di cose serie e, per una volta, di farlo seriamente. Il bisticcio di parole è voluto.


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