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Il “suicidio perfetto” di Matteo Salvini dal Papeete beach di Milano Marittima si disvela ora dopo ora nelle sue dimensioni qualitative e quantitative. Ha fatto tutto da solo e costringe il Bel Paese, sotto una canicola africana, alla prima crisi di ferragosto della Repubblica italiana con riti a tratti venezuelani o peronisti. Tra una “capigruppo” e l’altra, trolley, abbronzature invidiate e scioglilingua tra calendario e calende, colpi di teatro da provocatore di mestiere (mandiamo a casa 345 deputati la settimana prossima, poi subito al voto) e scene ripetute da circo Togni dove tutti abboccano alla provocazione e rumoreggiano come al Bar Sport arzigogolando su comunicazioni del Presidente e mozione di sfiducia. 

Ha seguito il suo istinto il leader del Carroccio che lo porta lì dove lo porta il cuore e, cioè, a fare la propaganda, ovunque e con chiunque, dalle spiagge romagnole alle piazze umbre fino a palazzo Madama, esercitandosi in quell’arte in cui ha dimostrato di essere un maestro insuperabile e che lo porterà presumibilmente a conquistare nuovi trofei regionali. Nel “suicidio perfetto” c’è un calcolo non so se consapevole che porta l’uomo della propaganda a fare il meglio di quello che sa fare (appunto, la propaganda) e a liberarsi di quello che gli fa più fatica fare (governare) perché non gli piace o non lo sa fare. Permettetemi, a questo punto, di sottolineare che in quest’aula che è il tempio della democrazia non si è parlato mai di un problema uno dei problemi (veri) del Paese che sono la crisi globale mondiale, la caduta tedesca, il furto con scasso di risorse pubbliche operato dal Nord a spese del Sud che accende un’ipoteca di declino sull’intero Paese, l’esodo di talenti giovanili che fa parte dello stato di famiglia italiano. Diciamo la verità, non abbiamo visto una bella classe politica ma il classico spettacolo da Bar Sport e ci permettiamo di continuare in questo lavoro di contenuti che è l’unica possibilità che ha questa classe politica per uscire dalle sabbie mobili nelle quali si è auto-impantanata.

Mettere in sicurezza la finanza pubblica, chiarire e stabilizzare il nostro ruolo in Europa,  certificare in Parlamento l’operazione verità sulla spesa pubblica allargata tra Nord e Sud. Su quest’ultimo punto ci permettiamo di sottolinearne la strategicità in un ipotetico accordo di governo di tregua, scopo, se di legislatura lo si vedrà, tra Cinque stelle e Partito democratico. Perché di questo si tratta ora non di altro a meno che dentro il CentroDestra Forza Italia non si renda conto che la proposta liberale, popolare e europeista è incompatibile con quella sovranista e anti-europea e voglia essere della partita. Non è più possibile accettare in silenzio le recidive esternazioni contro i terroni e le contumelie ripetute agli “spreconi” del Sud di un Governatore della Regione Veneto, Luca Zaia, da noi ribattezzato in arte il “Paglietta” perché il “Gallo” è il collega lombardo Fontana, che ha in casa con il Mose la madre di tutte le corruzioni e distorsioni moderne e che allunga mani rapaci su risorse pubbliche che non sono sue per spendere e spandere in mille rivoli assistenziali che il nostro Petrobelli documenta quotidianamente, da par suo, con la dovizia fattuale dei grandi giornalisti di inchiesta.

 L’operazione verità è indispensabile perché deve finire questo sconcio etico, prima di ogni altra cosa, per cui si vuole fare credere con la propaganda moderna, fatta di Fake news e Twitter che il Sud è il grande imbuto della spesa pubblica quando è vero l’esatto contrario perché l’imbuto è il Nord. Abbiamo fornito ieri le cifre della vergogna della spesa in conto capitale al Sud delle ferrovie italiane, soggetto economico interamente pubblico ancorché operatore di mercato, che dal 2000 al  2017 non solo non ha mai raggiunto la soglia obiettivo del 45% indicata con lungimiranza da un inascoltato Carlo Azeglio Ciampi, né risulta in linea con la popolazione del 34,3% ma resta mediamente intorno a un range del 20%, dando cioè niente a chi ha più bisogno e dando invece molto più che tantissimo (80%) al CentroNord che parte certamente da una situazione migliore. 

La Rai, prima azienda culturale del Paese sostenuta dal canone pubblico e ancora competitiva (sempre meno) grazie agli ascolti nel Sud, destina alle regioni meridionali terra di talenti creativi apprezzati nel mondo addirittura il 10% dei suoi investimenti in conto capitale con punte microscopiche in alcuni anni del 4,1%. Non parliamo della sanità perché i nostri lettori sanno bene quello che è successo.

Questa volta, però, vogliamo dare un dato di insieme che è da brividi e misura la “intollerabile” pazienza delle popolazioni meridionali con cui accettano la “rapina a mano armata” (legge Calderoli, trucco della spesa storica, più soldi ai ricchi e meno ai poveri che doveva durare qualche mese e impera indisturbata da 10 anni) di risorse pubbliche del Sud da parte del Nord in materia di spesa sociale e di spesa per infrastrutture di sviluppo. Citiamo la relazione annuale dei Conti Pubblici Territoriali del 2017 e, quindi, citiamo dati rilevati dal sistema statistico nazionale, capofila l’Istat, voluti da Carlo Azeglio Ciampi per avere una rilevazione certificata che riguardasse non più solo le Amministrazioni centrali, ma le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, l’Inps, le Ferrovie, l’Anas e così via. Mi dilungo in questi passaggi tecnici per chiarire a chi legge che non sono dati che ho sviluppato io o che ho preso da qualche consulente/analista amico, da un centro studi compiacente. 

Bene, ecco i numeri, decennio per decennio, dal 1951 al 2015 data ultima di aggregazione con criteri resi omogenei da CPT sulla base di elaborazioni Svimez, rapporti annuali DPS, relazioni annuali CPT e Monit, e rielaborazioni ISTAT per i dati relativi al Pil. Per gli obiettivi di riequilibrio le indicazioni storiche dei documenti di programmazione economica e del Fondo di coesione hanno previsto un range di interventi nazionali finalizzati allo sviluppo nelle regioni meridionali intorno allo 0,6% del Prodotto interno lordo (Pil) con un margine di flessibilità nelle ripartizioni annuali che non sarebbe dovuto comunque mai scendere sotto lo 0,4%. Vediamo come sono andate le cose decennio per decennio. 1951-1960: 0,68. 1961-1970: 0,64. 1971-1980: 0,85. 1981-1990: 0,59. 1991-2000: 0,47. 2001-2010: 0,33. 2011-2015: 0,15.

I numeri hanno una grande forza espressiva, parlano: il punto massimo di attenzione per il Mezzogiorno d’Italia si è avuto nei primi due decenni del dopoguerra che coincidono con il miracolo economico italiano e le successive crescite da potenza economica mondiale ma la  macchina da guerra degli investimenti pubblici (prima Cassa) sviluppa la sua potenza di fuoco quando è a pieno regime nel decennio 70-80 (il terzo) quando il reddito pro capite di un cittadino campano e pugliese si avvicina moltissimo a quello di un cittadino lombardo; poi,  qualcuno improvvisamente stacca la spina a questo sistema che funziona e progressivamente la spesa buona, quella per investimenti, si attenua fino alla fine del 2000 ma resta nell’orbita almeno del range minimo che è dello 0,4%.

 Ciò che accade, dopo, dal 2000 al 2015 è un’altra storia: le mani rapaci della politica del Nord, la regia centrale di Bossi e i suoi bracci armati alla guida delle Regioni Lombardo-Veneto-Piemontese fanno tabula rasa e, addirittura dal 2009, con il marchingegno della spesa storica arrivano di fatto a azzerare la spesa per interventi finalizzati allo sviluppo destinata al Sud per alimentare infrastrutture buone al Nord con i soldi del Sud ma anche per dare vita alla più corposa massa di spesa pubblica assistenziale della storia recente del Paese tutta al Nord e tutta dovuta al Sud.

 Questa è la verità, questi sono i numeri di cui il “Gallo” e il “Paglietta”, accompagnati dalla loro protettrice che ha mentito spudoratamente in Parlamento, la ministra Erika Stefani, devono rendere conto. Da questi numeri sono scappati a gambe levate lo “statista” di Varese Fontana e il “Doge” Veneto Zaia, ma questi numeri a nostro avviso possono essere la base economica-politica di un nuovo governo istituzionale, di scopo o che dir si voglia, che intenda per una volta misurarsi con il muro italiano eretto dalla miopia del Nord che condanna il Sud ma toglie il futuro allo stesso Nord. È bene, di certo, occuparsi dell’Iva, ma ancora prima del problema numero uno che è il riequilibrio delle due Italie. Fare una scelta così obbligata quanto impegnativa richiede almeno il coraggio di dire le cose come stanno e di certificare come balle spaziali i ragionamenti nordisti mai numerici sulla spesa pubblica allargata e sempre surreali su fantomatici residui fiscali territoriali (non esistono) di Lombardia e Veneto. Questa operazione verità risponde a un preciso dovere etico, ma ancora prima è la base per capire gli errori commessi e avviare una politica economica di sviluppo che permetta all’Italia tutta di realizzare non solo di sognare tassi di crescita americana.

 Bisogna combattere alcuni egoismi miopi dei ricchi del Nord e, mi domando, perché su questo terreno non ci può non essere un punto qualificante di un’ipotetica intesa Pd-5stelle di un’ipotetico governo di scopo che sottragga l’Italia da una spirale Argentina? Da cui ci protegge, è vero, l’ombrello monetario di Draghi ma noi stiamo facendo di tutto per farlo in pezzi con i nostri acquazzoni di propaganda sovranista. L’ombrello è bello possente e regge, ma era stato aperto per farci fare le riforme non per continuare a fare assistenza a favore dei ricchi. Il massimo dell’affronto possibile. 


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