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Palazzo Chigi sede del Governo

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Se il governo italiano dedicasse un decimo del tempo che impiega in politica estera a come far funzionare la macchina degli investimenti pubblici di questo Paese, potrebbe rimettere in moto l’economia e guadagnare stabilità politica. Per contare qualcosa in un’Europa che non conta niente e si muove in coda alla Turchia di Erdogan e alla Russia di Putin sugli scacchieri africani e mediorientali (a questo si è ridotta!), l’Italia deve recuperare il rango di Paese Fondatore che solo una crescita economica duratura e una lunga stagione di governabilità possono restituirle.

Si deve sporcare le mani con il suo unico, irrisolto problema sistemico, la riunificazione economica e sociale delle due Italie, e fare i conti con l’operazione verità lanciata da questo giornale, condivisa ai massimi livelli dell’indagine economica, statistica, contabile, anche nella sede più rappresentativa della democrazia che è il Parlamento. Avere sottratto per dieci anni consecutivi 60 miliardi l’anno di spesa sociale e, soprattutto, di infrastrutture di sviluppo, entrambe dovute, alle popolazioni meridionali per fare un regalo ai territori settentrionali e alimentare il peggiore assistenzialismo, ha trasformato il Nord produttivo in una appendice meridionale dell’industria tedesca afflitta da fragilità senile e ha condannato il Mezzogiorno al declino ambientale e alla diffusione della povertà. Questo atto di ottusa miopia ha messo l’Italia fuori gioco. Siamo l’unico Paese europeo, al Nord come al Sud, a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2008.

Se non si smonta tale macigno l’Italia sperimenterà, tra un ribaltone e l’altro di frange vecchie e nuove populiste/sovraniste, lo schema politico della deriva greca. Può addirittura diventare proprio l’Italia, in un contesto mondiale che vede l’Europa estranea alla guerra per la leadership dell’alta tecnologia tra Cina e Stati Uniti, il problema dell’economia globale per la stazza delle sue attività e la pesantezza (persistente) delle sue difficoltà. Una persona seria come Antonio Misiani, viceministro dell’Economia e bergamasco cocciuto, ha detto chiaro e tondo che si deve compiere un atto di giustizia nei confronti di un Sud sacrificato per anni nell’allocazione delle risorse per gli investimenti pubblici.

Se avesse il ministro del Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, la stessa chiarezza espressiva saremmo un passo avanti. Non sappiamo quanto durerà questo governo e, di certo, non auspichiamo controribaltoni da deriva greca. Sappiamo che non dovrà più parlare di piano per il Sud, ma di piano per l’Italia. Soprattutto, dovrà attuarlo dimostrando che è in grado di aprire i cantieri per fare i treni veloci e le opere immateriali (big data & c.) che possono restituire al Paese uno straccio di dimensione nazionale infrastrutturale e industriale. Questa è la priorità assoluta. Tutto il resto è melina pericolosa. Se non peggio.


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