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Roma, via Goito, sede centrale della Cassa Depositi e Prestiti

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Se la cultura industriale non ce l’hai non te la puoi dare. Se non hai l’abitudine a studiare i dossier e a collocarli dentro le ragioni competitive di un sistema Paese non puoi improvvisare. Se hai la testa del Banker e vuoi fare il privato con i soldi dello Stato non servi come strumento di politica industriale e farai inevitabilmente pasticci perché, prima o poi, dissiperai quote crescenti di risparmio postale italiano in tanti micro-interventi dove diventi qualcosa di mezzo tra la Gepi e la banca per piccole e medie imprese in difficoltà.

Ovviamente lo farai tendenzialmente tra Bergamo, Cesena, Pavia, in terra padana, dove questo tipo di aziende è più diffuso e dove le cicatrici della doppia crisi globale sono stampate sull’indebitamento bancario e sul risultato finale del conto profitti e perdite. Conquisterai la maggioranza dei debiti prima della maggioranza del capitale della società o direttamente o attraverso fondi di private equity (QuattroR SGR spa) di cui sei la longa manus e la compagnia di soci pubblici amici, magari previdenziali.

La sostanza non cambia. Fai finanza non industria e esplori le frontiere della modernità dove – tra jeans, pelletteria, pali, macchinari e valvole, ma se non li si ferma si può fare molto di più – il maccartismo consegna la “paura rossa” alla più moderna delle sue evoluzioni diventando “marchettismo” (ovviamente non sempre). A volte, si esplora anche un’altra frontiera della modernità che, ça va sans dire, non scende mai sotto Roma, perché può succedere che dopo l’intervento finanziario le cose peggiorino, se non c’era prima la crisi arriva dopo. Non sempre, ma normale.

Adesso, per capirci, ma ve lo immaginate un Obama che impiega il risparmio pubblico degli americani per occuparsi di pelletteria? Siamo seri: quando ha chiamato Marchionne al capezzale della Chrysler lo ha riempito di soldi del Tesoro statunitense perché era convinto che lui sapeva fare l’industria, che la Fiat sapeva fare le auto, che le piattaforme globali (come è avvenuto) avrebbero dato un futuro industriale (a partire dai fuoristrada) alla casa automobilistica americana convolata a nozze con quella italiana. Ma ce la vedete la Caisse des Dépôts francese che si mette a fare operazioni di decine di milioni, una catena di fondi di private equity per mettere in sicurezza questa o quella aziendina della moda, della meccanica, delle costruzioni? Ma va là, prendono in mano la Peugeot, solo per fare un esempio conosciuto, entrano nel capitale a viso aperto, affiancano la famiglia, ma soprattutto studiano, faticano, confrontano i mercati, i prodotti.

Non hanno l’aereo da Londra lunedì sera e per Londra giovedì sera, da martedì a giovedì (e anche il venerdì) si confrontano con i piani industriali non con i deputati che chiedono aiuti per i loro territori. Risultato: come per la Chrysler anche la Peugeot è rinata sul piano industriale (chiaro?), è ritornata a dire la sua, può mettersi insieme alla pari (e qualcosina di più) con la Fiat Chrysler Automobiles e far nascere così il quarto produttore mondiale dell’auto.

Questo per noi significa fare Industria Italia che non vuol dire rifare l’Iri, ma recuperarne l’intelligenza strategica, lavorare per il posizionamento industriale dell’Italia, evitare di ripetere l’ennesimo pasticcio con il dossier Alitalia o con il dossier Ilva. Sarà vero che ciò che è nostro lo condividiamo con Delta e ciò che andiamo a condividere con loro sulle rotte transcontinentali resta loro? Questa prebozza di contratto, ammesso che contenga davvero una simile clausola, è stata siglata o no da politici e manager italiani? Ma c’è qualcuno da qualche parte capace di studiare un modello per i nostri aeroporti (i primi quattro) perché diventino hub del turismo globale e la smettano di regalare alle compagnie low cost il patrimonio italiano ritagliandolo invece magari su misura della nostra compagnia di bandiera? Fantascienza?

Forse, no; magari sono solo fatica, competenza, capacità di analisi comparate, flessibilità, ragionamento industriale. Di questo parlavano i capi azienda dell’Iri nelle loro riunioni del lunedì perché l’Iri era una holding di partecipazioni industriali e, con i soldi dello Stato e quindi della collettività, non scimmiottava i banchieri di affari di piccolo e grande conio. Al massimo se cambiamo il loro calendario, oggi di lunedì in Cdp possono fare una riunione di banchieri/bancari, un’altra cosa con tutto il rispetto. Le aziende sane che ha Cdp sono tante, ma gliele ha date tutte lo Stato, penso a Terna, Fincantieri, Poste, Eni e così via. Non ne hanno ancora rimesso in sesto una davvero tra quelle che hanno preso loro tanto da potersene vantare come modello sistemico. Il capitalismo ha vinto contro il comunismo e contro il fascismo, ma rischia di cedere il passo a questo maccartismo all’italiana che promette poco di buono. Ma si può continuare ragionevolmente a pensare che con il risparmio postale delle famiglie meridionali si contribuisce a rifare l’ospedale pubblico/privato di Trento, riqualifichiamo le caserme della Lombardia e aiutiamo a fare la seconda linea delle metropolitana di Torino?

Al Sud si prova a aprire un ufficio di Cdp a Napoli e ci si prepara a studiare le pratiche, al Nord si eroga a privati che stentano e al pubblico per fare quelle stese cose che al Sud servono molto di più. Consigliamo maggiore prudenza quando i vertici di Cdp parlano di “mettere al centro i territori”, di “fare sistema per lo sviluppo sostenibile” e di “anno record”.

Sullo sfondo di tanta confusione di ruoli, si staglia poi un’altra questione politica che riguarda uno staff diffuso di trentenni dell’ex uomo forte dei Cinque Stelle Luigi Di Maio – ha pesato nella scelta dei vertici della Cdp di oggi – che dimostra di non avere l’impalcatura per sostenere questa responsabilità di governo da vari punti di vista. La perdita di energia fisica in un quotidiano regolamento di conti di potere con la nuova leadership di Conte è l’attività ormai assorbente di chi ruota intorno al ministro degli Esteri e ai presídi mai abbandonati del Lavoro, dello Sviluppo e del Made in Italy. Lo staff di Di Maio vuole solo capire le mosse di Conte e quelle di deputati e senatori dissidenti, tenere l’agenda aggiornata di chi è contro e di come metterlo a posto, e tutto ciò toglie energie mentali al leader nei suoi tanti ruoli e prepara il “biodegradarsi” immorale del Movimento di casaleggiana memoria, intesa come Gianroberto.

Peccato, perché si può ironizzare (a ragione) sulle competenze di Di Maio in tanti ruoli di responsabilità e tutti strategici per il Paese, ma è difficile negargli fiuto politico e la strada intrapresa è l’unica che porta, di certo, alla perdita della leadership. Lui e il suo staff impegnino le loro energie per porre fine all’abolizione del Mezzogiorno dagli investimenti pubblici e dalla spesa sociale, si occupino dello Stato imprenditore di cui il Nord più del Sud ha bisogno e degli uomini a cui è stata affidata la delega politica, si applichino su decreto fiscale e nuova autonomia. Chi gli sta intorno ha il dovere di aiutarlo sui dossier non sulle liti da comari. Altrimenti rischia di fare la fine del cavallo purosangue del Palio di Siena totalmente dopato che alla prossima curva scoppia.


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