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L'italia di Ballarò, disegno di Lorenzo Terranera

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I rischi veri e presunti e le colpe gravi del sovranismo italiano. La lezione del caso Etruria, le rigidità europee e le profezie che si autoavverano


Non scambierei mai la prima banca tedesca con la prima banca italiana. Questa frase mi è rimasta dentro perché a dirmela un po’ di anni fa è stato chi conosce benissimo entrambe e la sua competenza non è discutibile. Mi torna nella testa come un flash della memoria qualche giorno fa quando l’agenzia americana Moody’s abbassa da stabile a negativo l’outlook sul sistema bancario tedesco. Ricordo che quel giudizio così autorevole mi colpì soprattutto perché la conversazione avvenne nel dicembre del 2015 quando l’Italia correva il rischio di una seconda crisi sistemica bancaria da “inesistente rischio sistemico”.

La prima crisi bancaria – quella vera – è figlia della Grande Crisi Sovrana del 2011 e fa sì che la gran parte delle banche italiane non ha accesso al mercato, non riesce a prendere liquidità nemmeno a un giorno. Nelle ore più calde del Cigno nero italiano, a novembre dello stesso anno, a molti è sicuramente capitato di andare al bancomat e di non riuscire a prelevare. Sulle macchinette, un messaggio: si avvisa la clientela che c’è un guasto alla rete, ma non è vero. La rete funziona, quello che manca è la cassa. Non c’è più un euro, sono finiti i soldi.

Nel 2015 sempre sotto Natale, ma quattro anni dopo, è tutta un’altra storia, il quadro di riferimento è completamente diverso. C’è dell’altro. Il rischio reale che interessi franco tedeschi fuori, un’idea calvinista di Europa (tedesca-olandese-finlandese) che la politica non ha la forza di scalfire, giacobinismo e populismo in casa, finiscano con l’accreditare congiuntamente un inesistente rischio sistemico bancario italiano e questo alimenti un maggiore costo del credito, incida sui depositi, tocchi i nervi scoperti dei risparmiatori, li metta in fuga.

L’accanimento politico nei confronti dell’ex ministro Maria Elena Boschi (irritualità dei suoi comportamenti) e del padre di lei, Pier Luigi, vicepresidente di Banca Etruria – una banca che è qualcosa di infinitesimale a livello di sistema riuscendo a malapena a raggiungere l’1 dopo lo zero virgola della massa amministrata del credito italiano – è paradossalmente la goccia che rischia di fare traboccare il vaso.

Di questo siamo stati capaci nel 2015 e oggi che si parla a sproposito (Fondo Salva Stati) e a proposito (Unione bancaria alla tedesca) di soldi italiani che dovrebbero salvare le banche di Berlino, di meccanismi di risoluzione che autoalimentano aspettative negative e possono trasformare una bronchite in una polmonite, si ripropongono entrambi i rischi di allora. Per questo, mi prendo la licenza di riproporvi il racconto di Roberto Nicastro, trentino dai modi garbati, un lungo passato da direttore generale di Unicredit, che ha vissuto quei giorni in prima linea come commissario delle quattro Popolari (Etruria, Cariferrara, Carichieti e Banca Marche) e sa di cosa parla: “Avevamo di fronte un compito particolarmente complesso per almeno due motivi.

Il primo: la Risoluzione nasce dalla direttiva del bail-in che va bene per crisi specifiche dentro un contesto sano, ma non come nel caso nostro di quattro banche in dissesto in mezzo a una crisi diffusa e con gravi rischi di contagio sistemico. Con in più problemi di retroattività, basti pensare che metà degli obbligazionisti subordinati colpiti avevano acquistato i titoli nel 2006 e 2007, ben prima della crisi Lehman e 7 anni prima della Direttiva e delle scadenze strettissime fissate dalla DG Competition per la cessione. Per non parlare di molteplici altri problemi giuridici, contabili, fiscali. Fummo le prime cavie europee del processo di Risoluzione.

Il secondo motivo, invece, è tutto politico-mediatico. Il 50% dell’attivo e il 70% del problema NPL delle quattro banche riguardava Banca Marche, ma si parlava solo di Banca Etruria. Si parlava e si titolava di 120.000 risparmiatori sul lastrico e si trascuravano i numeri veri che avevamo pubblicato sul sito del MEF: in totale sulle 4 banche circa 1000 obbligazionisti subordinati molto esposti, e non si spiegava che il governo stava varando l’indennizzo forfettario per i piccoli risparmiatori e caso per caso per i grandi, un po’ lento ma poi risolutivo”.

A questo punto, Nicastro si ferma, scuote la testa e dice: “Alzatosi il polverone mediatico i clienti persero fiducia, nel panico correvano in filiale a prelevare i propri depositi. La corsa agli sportelli si bloccò presto in Nuova Banca Marche e a Chieti, durò un po’ di più a Ferrara, ma divenne acutissima in Nuova Banca Etruria, come effetto della tensione mediatica e politica rispetto alle colpe dei dissesti…” C’è un episodio che ho già raccontato, ma resta sconosciuto ai più, che rende bene la drammaticità della situazione. Il 31 dicembre del 2015 alle dieci di sera il ministro dell’economia, Piercarlo Padoan, dalla caserma della guardia di finanza di Predazzo, il commissario delle quattro banche popolari Nicastro da Trento e il Vice Direttore generale della Banca d’Italia, Fabio Panetta, oggi direttore generale, nella sua stanza in via Nazionale, a Roma, con il capo dell’Unità di Risoluzione Stefano De Polis, sono in collegamento telefonico permanente perché, soprattutto per Etruria e Cariferrara, ci sono problemi di liquidità, rischiano di non chiudere i conti, i risparmiatori prelevano i depositi, scappano dalla banca. A volere la riunione in conference call in una giornata così speciale è stato Nicastro che ha la responsabilità della banca e si trova costretto a fare presente a tutti che il problema è Banca Etruria.

Queste le sue parole: “La riserva di liquidità di Etruria si è ridotta a sette giorni, abbiamo uscite quotidiane di 30 milioni; la legge europea non consente interventi diretti o indiretti di natura pubblica in supporto di liquidità. Quindi si assumono varie misure di emergenza: viene accentrata la tesoreria di tre banche, Carichieti per fortuna è molto liquida; si mettono in liquidazione alcuni portafogli titoli; si cercano depositi dappertutto anche allertando le banche più solide, Bankitalia si incarica di valutare la possibilità di concedere liquidità di emergenza. Nelle filiali si combatte come in trincea, richiamo dalla pensione Roberto Bertola di Saluzzo, ex Unicredit come me e sempre con me anche in una passata difficile partita al Banco di Sicilia, lui si fa tutte le filiali della banca a una a una, va a spiegare a tutti che in realtà ora la banca è più capitalizzata e solida di prima, ci mette tutta la sua passione e la voglia di fare presto per tornare dai suoi nipotini. Posso dire che senza l’energia sua e di tutta la squadra di Etruria la diga non avrebbe tenuto, con grossi rischi di ulteriore contagio.”

Colpe nostre, certo, ma non dimentichiamoci mai tutto ciò che ha determinato le condizioni perché quelle colpe storiche (nostre) esplodessero. Si è comunicato al mercato una classificazione arbitraria delle sofferenze lorde delle quattro banche messe in liquidazione (10,5 miliardi con accantonamenti in essere pari al 60%) e, a quel punto, i mercati fanno una piccola sottrazione, sui dati percentuali (100-17,5 – 60= 22,5%) e giungono alla conclusione che c’è un buco di oltre 2 miliardi e, su scala nazionale, di almeno 20. Qualche mese dopo il valutatore indipendente rialza fortemente (dal 17,5% al 22,5%) quel prezzo, ma la frittata è stata fatta.

A imporre di servirla in tavola è stata la commissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, che si prepara ora al suo secondo mandato e che non ha voluto saperne allora di non dare in pasto ai mercati un dato così poco attendibile e così sensibile. Con questa formalistica applicazione della comunicazione della Commissione europea sugli aiuti di Stato (il burden sharing, antesignano, anche se più leggero, del bail in della direttiva comunitaria Brrd) la Vestager mostra di capire poco di banche in genere e niente affatto di banche italiane e affianca il Capo della vigilanza Danièle Nouy con i suoi stress test a senso unico nella nobile gara a chi butta prima giù e più rovinosamente dalla torre le banche italiane.

A questa coppia si affiancherà poi con convinzione la tedesca Elke König, nominata nel 2015 presidente del board del Meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie. Di fatto con tali comportamenti, quanto meno discutibili, la coppia di ferro franco tedesca, insieme alla commissaria danese, pone (volutamente?) le premesse per trasformare una bronchite in una broncopolmonite o in qualcosa di ancora più grave. Queste donne hanno avuto nelle loro mani il risparmio degli italiani e sembra che custodirlo sia stata proprio l’ultima delle loro preoccupazioni.


Come nel 2015 con Banca Etruria dove il multiforme populismo, al di là del merito specifico della questione bancaria e della questione familiare, diede il meglio di sé esclusivamente per ragioni di lotta politica, oggi assistiamo a un nuovo gattopardismo che ha obiettivi di regolamento di conti interni, sbaglia come al solito bersaglio, e soprattutto rinfaccia ad altri colpe proprie. Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) esiste da anni, ma ora si è voluto modificarlo per renderlo più adatto ai tempi e alle probabilità che qualche Paese ne abbia veramente bisogno. Si ha in testa un nuovo Fondo Monetario europeo. Bene: una parte non piccola della responsabilità di questa modifica in senso burocratico-restrittivo nell’accesso agli aiuti, cioè nel rendere più pesanti le condizioni da soddisfare per il Paese che ne abbia bisogno non escludendo addirittura la ristrutturazione del debito che – come insegna la Grecia – ha effetti dolorosissimi, va esclusivamente al governo giallo verde, e in particolare modo a Salvini e agli altri anti-euro di quella maggioranza, al governo e in Parlamento.

Quando i principi generali della riforma furono approvati dal Consiglio Ue, tenevano banco le dichiarazioni di Salvini & C. sullo sforamento del 3% di deficit (che “non solo si può, ma si deve fare”), sul “dell’Europa me ne frego”, sui risibili ‘mini-BoT’ e altre uscite assortite alla don Chisciotte. C’era del metodo in quella pazzia: ogni disincantato osservatore esterno, nelle Cancellerie europee, vedeva avvicinarsi il rischio (ribadito dalla richiesta di ‘pieni poteri’ da parte di Salvini) che il goveno italiano si avviasse ad una uscita dall’euro. E, anche se l’Italia è, in ultima analisi, ‘too big to fail’, ‘troppo grossa per fallire’, è certo che una crisi finanziaria avrebbe coinvolto il Mes che, a suo modo si attrezza, visto che sa bene che i mercati non fanno sconti a nessuno.

In realtà i tedeschi vogliono un Fondo più ricco di prima e con più poteri e aprono per la prima volta alla garanzia unica sui depositi, ma lo vogliono perché le loro banche sono oggi molto più vulnerabili di ieri o almeno ne è fortemente aumentata la percezione diffusa. Soprattutto fanno o dichiarano di volere fare questo passo a patto che si isoli il rischio sovrano italiano e nessuno pensi mai di contagiare il debito europeo a partire da quello della cosiddetta virtù tedesca. Questo è insopportabile e, infatti, a differenza di quello che vuole accreditare una interessata propaganda politica interna il premier Conte, l’ex ministro Tria e il direttore del Mef Rivera hanno fatto un buon lavoro per evitare che l’accesso agli aiuti del Fondo Salva Stati comportasse in modo automatico, la ristrutturazione del debito.

Le insidie, però, non sono finite e si annidano tutte nel volere attribuire un maggiore tasso di rischiosità ai titoli sovrani dei Paesi a più elevato debito fino al punto di porre a carico dell’Italia, delle sue banche che hanno molti di questi titoli in pancia, delle sue imprese, e delle sue famiglie una nuova ponderazione (proposta Scholz) che è di certo un costo pesantissimo e che per di più si autoalimenta con effetti ingiustificatamente negativi per gli oneri sul debito, la capitalizzazione e la capacità di impiego delle banche. Una sciagura, insomma. Porre un tetto agli acquisti di titoli pubblici da parte delle banche per tutti i Paesi indistintamente avrebbe di certo effetti meno dirompenti perché toglierebbe al mercato quella segnalazione in automatico di maggiore rischiosità specifica della banca che detiene in pancia titoli di Stato italiani. Accontentarsi di questo risultato, però, non permette di dormire sonni tranquilli.

Anche perché sarebbe davvero insopportabile che dopo avere accettato un tetto agli acquisti di titoli di Stato da parte delle banche dei singoli Paesi si continui a non volere pesare il tasso di rischiosità di una montagna di titoli illiquidi (i level 3 asset) che sono nella pancia di Deutsche Bank e di molte banche francesi per le quali l’Europa non ha voluto fare dall’inizio una certificazione terza europea fidandosi di quella delle banche centrali tedesca e francese. Un vero pastrocchio come dimostra lo stato di sofferenza delle banche tedesche di oggi. Questo strabismo non è più tollerabile e ha ragione il Governatore della banca d’Italia, Ignazio Visco, a ritenere necessaria una qualche forma di assicurazione sovranazionale, ad esempio attraverso la creazione di un Fondo per il rimborso del debito europeo (ERF), finanziato dalle risorse dedicate dei Paesi partecipanti. L’introduzione di un ERF rafforzerebbe l’impegno nazionale per la riduzione del debito (perché la quota del debito nazionale trasferita al fondo sarebbe sostenuta da un flusso di entrate specifiche) e ridurrebbe la rilevanza sistemica del debito nazionale (residuo). Purtroppo, fare accettare ai tedeschi un simile, ineccepibile ragionamento è molto difficile per una mentalità sbagliata e greve che fa credere al cittadino tedesco che, per questa via, si prenderebbe in carico il debito del cittadino italiano. Non è così e le dichiarazioni del vicecancelliere tedesco Scholz alla bravissima Mastrobuoni su Repubblica (“tutti debbono trarne vantaggi”) non devono illudere, semmai accrescere le diffidenze e le armi da combattimento. Non si può più tollerare che il semplice annuncio di fare qualcosa, senza nemmeno farlo, inneschi una reazione a catena di aspettative di default, che può diventare una profezia che si autoavvera. Dovremmo tutti tenere a mente le terribili conseguenze dell’annuncio del coinvolgimento del settore privato (ovvero della ristrutturazione del debito sovrano della Grecia) nella risoluzione della crisi greca dopo l’incontro di Deauville alla fine del 2010. Soprattutto tedeschi e francesi, su questo punto, debbono avere bene a mente che noi abbiamo già dato.

Christine Lagarde, nuovo presidente della Bce, venerdì scorso, ha citato San Francesco per indicare la strada che consente di “trovarvi sorpresi a fare l’impossibile”. Per lei, che ha la storia e il carisma per raccogliere l’eredità più impegnativa in assoluto che è quella di Mario Draghi ma è al suo debutto come banchiere centrale, l’impresa impossibile sarà fare capire ai tedeschi che il problema europeo sono le loro banche e il loro carico esplosivo di derivati e che si devono togliere dalla testa di fare pagare a chi sta meno bene di loro il conto dei loro errori, dei loro azzardi e forse delle loro ruberie. Così come in casa nostra si deve capire una volta per tutte che se si vuole pesare in Europa si devono avere comportamenti adulti e conseguenziali, si studiano i dossier e ci si presenta preparati e compatti, si fanno alleanze e si lotta nelle sedi giuste. La propaganda, forse, aumenta i voti, di sicuro accresce il conto che pagano i risparmiatori, le imprese e le famiglie. Se lo ricordino tutti.


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