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Rischio calamità sanitaria: Regione Campania offre 20 posti letto in terapia intensiva, nulla dagli operatori privati lombardi. Il Paese ritrovi lo spirito deI dopoguerra: facciamo noi gli ospedali di pronto intervento e fabbrichiamo in casa gli apparati medicali che servono. Il governo rifinanzi la cig per i privati e tutti dal Nord al Sud sentano lo Stato come un soggetto di cui fanno parte 


Prendiamo atto che la Terza Grande Crisi Globale (Coronavirus) è arrivata e che l’Italia ci è dentro fino al collo. Forse, è proprio il fondo che dovevamo toccare. Qui ci hanno condotto venti anni di federalismo predatore e l’onda lunga della doppia morale che ha incagliato il Paese sugli scogli del populismo e dell’incompetenza. La Lombardia, non la Calabria, è oggi la scogliera dove è andata a sbattere la barca del Paese perché qui l’ubriacatura dei soldi pubblici ha fatto smarrire la cultura della prevenzione tipica della sanità ospedaliera e da qui si è voluto frazionare il potere di comando nazionale a favore del capitalismo della rendita sanitaria e di egoismi diffusi. Poiché questa è la realtà dobbiamo reagire, non parlare male di noi e tra di noi. Dobbiamo evitare i neogiacobinismi dei tribunali di salute pubblica e i processi sommari tipo Tangentopoli che hanno portato via i ladri ma anche azzerato una classe dirigente capace confondendo le colpe del sistema con quelle degli uomini. Abbiamo il dovere di essere all’altezza di fare un discorso serio di rifondazione del Paese che è il minimo vitale per essere almeno rispettati nel mondo. Perché tra dieci giorni al nostro fianco tra i Grandi infettati del globo ci sarà anche la Germania e gli ospedali di Parigi non reggono più già da qualche giorno. Quando il contagio da Coronavirus è scoppiato a Shanghai in Borsa non è successo nulla. Quando si è scoperto a Codogno c’è stata l’ira di Dio e sono venuti giù tutti i mercati. Verrebbe da dire che Codogno è il centro finanziario del mondo, ma ovviamente non è così.


La morale è che quando la crisi è globale, come in questo caso, arriva il momento in cui si discute il futuro del mondo e chi viene tagliato fuori poi non rinasce più. È così in tutte le grandi crisi da secoli. La Spagna era con la Gran Bretagna una delle due grandi potenze nel mondo. Aveva le sue colonie in America Latina e nelle Filippine. Aveva un pezzo di Estremo Oriente, Colombo scoprì l’America per conto della Spagna. Alla fine della crisi non era più un impero ma uno Stato come tutti gli altri.

Questo non può succedere da noi perché l’Italia non è mai stata un impero, ma parliamo pur sempre di un Paese del G 7 e se non fa in modo di continuare a esserlo non lo sarà più e, soprattutto, non ritornerà più a esserlo. Per questo abbiamo bisogno di uno Stato come soggetto di cui tutti si sentano parte, bisogna capire che lo Stato non è più il Palazzo d’Inverno da conquistare e che c’è invece una democrazia da fare funzionare. Abbiamo avuto tre o quattro decenni in cui lo Stato italiano e la sua classe dirigente di governo hanno funzionato alla grande. Poi la spinta secessionista con i suoi feudatari regionali e un processo mediatico-giudiziario che ha eliminato insieme i corrotti e i migliori, ci hanno portato a toccare il fondo di contendere alla Cina il primato mondiale del Coronavirus a un passo dall’ingiusto commissariamento da parte della Organizzazione mondiale della sanità.

Facciamo i conti oggi con l’eliminazione di una classe dirigente centrale capace e con il protagonismo presuntuoso di un ceto di amministratori locali (non tutti) sprecone, privo dei fondamentali. Abbiamo messo fuori gioco chi sapeva fare il suo mestiere e abbiamo, spesso, applicato la regola folle di Lenin. Che era solito ripetere: “per fare funzionare lo Stato basterebbe la mia cuoca”. Dire la verità è più che mai necessario per il futuro non per farci fuori tra di noi. Questo Paese non si può più permettere una nuova guerra per bande.


Abbiamo dato per scontato che il nostro benessere non sarebbe mai stato messo in discussione come una cosa acquista e ovviamente abbiamo sbagliato. La classe dirigente della ricostruzione fece quello che fece perché non dava nulla per scontato. Alle spalle aveva un’Italia che era andata a rotoli e la intima consapevolezza di De Gasperi che puoi mandare a gambe all’aria un Paese dall’oggi al domani facendo anche solo una o due scelte sbagliate. La cultura della precarietà delle cose umane è stata la molla vera della ricostruzione. Oggi dobbiamo prendere atto che abbiamo in casa la Pandemia e dobbiamo lavorare con lo spirito di guerra e del dopo-guerra della ricostruzione italiana. Servono, in più fasi, almeno 30 miliardi. I respiratori non ce li faranno arrivare mai perché ci sarà sempre qualcuno prima di noi, allora chiediamo a questi capitalisti che sanno solo lamentarsi di convertire gli impianti e di fabbricare loro respiratori e apparati medicali. Dimostriamo che abbiamo le munizioni di guerra e facciamoli noi gli ospedali di pronto intervento di cui abbiamo bisogno. Si utilizzi la tecnologia per cambiare il nostro modo di produrre e di lavorare, andiamo nel mondo a insegnare come si fa perché non possiamo farlo in casa. Si eroghi la cassa integrazione a chiunque ha perso il lavoro – qui si è dato poco alle imprese private e questa può essere una sottovalutazione grave – e si indennizzino gli operatori turistici, culturali e di trasporti rasi al suolo dalla crisi. Le convenzioni sanitarie lombarde con i privati come quelle del Ponte Morandi andranno tutte riviste, ma ora dobbiamo aiutare la Lombardia che non ce la fa con le terapie intensive. Ha bisogno di aiuto, guai se questo aiuto non arrivasse dallo Stato e guai se il Sud non fosse in prima linea per quel che può. Sui privati della rendita sanitaria lombarda non farei affidamento: il loro silenzio parla da solo. Apriamo il cantiere Italia con le regole del modello Genova e riconvertiamo le nostre fabbriche dimostrando che la democrazia italiana può essere più veloce della dittatura cinese. Si dimostri che il potere di comando esiste e che a esercitarlo sono uomini alla Beneduce o alla Bertolaso. L’esempio dato, anche in questo caso, da Carlo Messina aiuta, forse, a capire qual è la pasta di uomini di cui questo Paese ha urgente bisogno. Occorre rifare l’Italia capendo una volta per tutte da dove arrivano le macerie e chi ha le competenze per ricostruire il palazzo. L’Europa questa volta seguirà perché la Grande Crisi tocca tutti e non si può più scherzare.


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