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Noa Pothoven

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4 minuti per la lettura

Si chiamava Noa, aveva solo 17 anni, ma a lei sembravano macigni. Aveva provato a uscire fuori dal suo male di vivere anche attraverso la funzione terapeutica della scrittura: in un libro aveva raccontato le molestie e gli stupri che aveva subito da piccola. Ma non è servito a molto.

Noa continuava ad avere il terrore di vivere. E si è lasciata morire. Di fame e di sete. È stato un suicidio quello di Noa. Se vogliamo un atto di accusa contro una società che non è riuscita a proteggerla prima, quando la sua bellezza ha scatenato gli istinti più animaleschi negli aggressori, e nemmeno dopo assicurando alla giustizia gli stupratori e aiutandola a superare la fragilità psicologica dovuta proprio a quegli eventi devastanti. Eppure parliamo dell’Olanda, un paese che  nelle statistiche che misurano il benessere non solo economico  dei cittadini è nella parte alta delle classifiche europee.

La cronaca ha parlato molto di Noa un po’ di settimane fa. Ora la sua storia sembra già dimenticata. Ma io non riesco a togliermi dalla mente quegli occhi bellissimi e disperati.

Si chiamava Eluana, aveva 21 anni quando un incidente se l’è portata via pur lasciandole ancora il respiro. Eluana amava la vita, aveva tanti sogni da realizzare. Lei mai l’avrebbe buttata via volontariamente, la sua vita. Ma stare bloccati in un letto per decenni, come un vegetale, non era vita per Eluana Englaro, glielo aveva detto tanto tempo prima a suo papà Peppino e lui ha lottato come un leone affinché la sua Eluana potesse liberarsi di quel corpo rimasto lì, inanimato, mentre la sua anima era da tempo volata via. Le storie di Noa ed Eluana non hanno nulla in comune. La giovanissima ragazza olandese si è suicidata. Non è stato un caso di eutanasia, come pure inizialmente qualcuno aveva voluto far credere per strumentalizzare la vicenda.

Attraverso suo padre Eluana è riuscita a liberarsi dell’accanimento terapeutico. Ancora adesso dopo tanti anni mi chiedo se si può parlare di eutanasia. Eluana non c’era più da tempo, quel corpo attaccato a una macchina era solo il contenitore di una ragazza che già non era più in vita. Prima e  dopo Eluana in Italia abbiamo avuto altri casi eclatanti: Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, dj Fabo, solo per citarne alcuni. Anche loro si  sono ritrovati in un corpo trappola , in un corpo prigione , ma la mente era ancora lucida , cosi tanto da decidere che era il momento di andare via. Non potevano farlo da soli e cosi’ si sono fatti aiutare nel loro suicidio.

Era giusto? Io credo di sì.

Credo che ognuno abbia il diritto di decidere se rimanere o andare via. Vivere non è solo respirare, mangiare e dormire. Ma rispetto chi la pensa diversamente. Chi, come i genitori di Lambert, il ragazzo francese dal 2008 in stato vegetativo a causa di un incidente, si sono battuti fino allo stremo perché al loro figlio non venisse staccata la spina. Nonostante i medici sostenessero che era meglio così. Nonostante la moglie di Lambert si sia sempre detta convinta che anche lui avrebbe voluto così. Ma forse no. Ed è a quel forse che mamma Viviane  e papà  Pierre si sono aggrappati. Sperando in un evento che tutti i medici hanno escluso categoricamente, che lui un giorno potesse riaprire gli occhi e rialzarsi, e capire, e sorridere, e parlare. È un amore così profondo e così immenso il loro che si accontentano di vederlo lì, in quel letto, totalmente incosciente e forse già lontano.

Sembra che Viviane e Pierre stavolta abbiano perso la loro battaglia definitivamente. Per l’ennesima volta in questo caso che sta straziando l’opinione pubblica francese, una corte di giustizia – ed è la Cassazione – ha deciso che a Lambert possano essere staccate le macchine che artificialmente lo tengono in vita. Nessuno saprà mai se davvero questa è la cosa giusta per lo sfortunato infermiere francese. Probabilmente  ognuno rimarrà  sulle proprie posizioni: la moglie che vuole liberarlo dal suo corpo trappola, i genitori che non vogliono rassegnarsi, i giudici che a suo tempo avevano detto che non bisognava staccare la spina, quelli di adesso che hanno convalidato lo stop alle cure chiesto anche dai medici.

Creare eventi mediatici attorno a queste situazioni può sembrare sbagliato, quasi disumano. Ognuno di noi dovrebbe poter gestire  la propria vita, l’amore, la morte senza interferenze di estranei. So anche, però, che solo rendendo pubblici questi enormi dolori, forse un giorno arriveremo tutti a lasciare qualche rigo scritto per dare indicazioni ai nostri familiari di come vorremmo o non vorremmo vivere l’ultimo pezzo della nostra vita se ci dovesse capitare qualcosa di improvviso e tragico. Io l’ho già detto ai miei cari, quando l’Italia era dilaniata dal “caso Englaro” , ma lo ribadisco adesso: mai vorrei vivere in modo incosciente come un peso, chi mi vuole bene deve avere la forza di lasciarmi andare. Si chiama testamento biologico, in Italia è  in vigore da un anno e mezzo. Compiliamolo tutti, magari anche per “scaramanzia” , ma facciamolo perché nessuno di noi sa come  e quando finirà questo bellissimo viaggio della vita, lasciare qualche istruzione a chi resta serve a sollevarlo da responsabilità enormi ed è un gesto di grande generosità.

eva.kant@quotidianodelsud.it


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