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«E quando il mondo ti schiaccia provaci anche tu, tira fuori il bimbo che hai dentro e non nasconderlo più». Prendo in prestito le parole di Ultimo. Mi è capitato di ascoltarle più volte questa estate e descrivono lo stato d’animo che mi ha spinto a fare un’esperienza fuori dall’ordinario. Ventotto anni e una vita con tutte le carte per essere definita “perfetta” (una laurea con lode presa in anticipo, un dottorato, un buon lavoro di giovane avvocato e una famiglia che mi appoggia). Eppure, a luglio ho deciso di prendere una pausa da tutto e partire per un viaggio. Non sono la prima e non sarò l’ultima. Molti giovani lo fanno e più persone mi hanno chiesto perché. Premesso che ognuno ha la sua motivazione specifica, credo che una più generale si possa cogliere.

La motivazione è che a un certo punto ti sembra che «il mondo ti schiacci». Il tuo mondo. Quello fuori – degli altri – invece è lì, inspiegabilmente intatto, ai tuoi occhi sempre uguale, bello e tranquillo. Il tuo mondo no. Probabilmente dopo aver scricchiolato a lungo, è crollato, schiacciandoti e portandosi via le tue (evidentemente false) risposte ai perché della vita.

E allora devi trovare un nuovo mondo, dove cercare nuove risposte, più vere. Come? È possibile? Beh, «provaci anche tu, tira fuori il bimbo che hai dentro». Nella mia libera interpretazione (Ultimo non me ne voglia) il “bimbo” sei tu con tutto il tuo coraggio. Ci vuole coraggio per lasciare il tuo vecchio mondo – quello che fino a poco prima ti ha nutrito – per cercarne un altro. Fa paura. È normale.
È una coraggiosa resa dinamica. È resilienza. Prevede due fasi. La prima: ti arrendi, accetti il tuo mondo crollato e lo lasci andare. Rimanerci aggrappato non serve, non ti porterà da nessuna parte, non ti darà risposte: è crollato. La seconda: non rimani inerte, ma ti rialzi e costruisci un nuovo mondo, più autenticamente tuo. Spetta solo a te farlo, nessuno può sostituirti.

Hai bisogno di un posto “insonorizzato”, lontano dal ritmo uguale del suono assordante della vita che normalmente ti gira intorno. E insieme hai bisogno di un posto in grado di trasmetterti vibrazioni belle, genuine. E diverse. Capaci di scuoterti, farti uscire dalla famosa “comfort zone”.

Ed è così che parti. Ed è così che sono partita.

Sud America, Perù e Colombia. Quattro settimane, di cui tre in missione organizzata dal Missioni Mvc Onlus e una a (ri)trovare una parte della mia famiglia paterna che vive lì. Partivo sola, non conoscevo nessuno dei miei compagni di missione, tranne l’organizzatore. Non sapevo con precisione cosa avrei fatto. Sapevo però che era la scelta giusta. In tutta la sua incertezza. Quella incertezza che volevo imparare ad abbracciare, non considerandola più come una minaccia, ma come un’opportunità.

Il 22 luglio sono quindi partita alla volta di Cañete, una città a sud di Lima. Per una settimana io e i miei compagni di viaggio abbiamo lavorato in una favela, un’immensa distesa di terra e baracche di paglia, sotto un cielo plumbeo da cui trapelano rari raggi di sole. In questo panorama grigio e marrone gli unici colori vivaci erano quelli dei vestiti dei bambini, che ci giravano intorno festosi, chiamandoci per nome, abbracciandoci e chiedendoci in regalo caramelle e cioccolatini. Il nostro compito era costruire quattordici casette prefabbricate di legno, ben lontane dalla nostra idea di casa, ma un dono del Cielo per chi le avrebbe ricevute. Le abbiamo costruite dalle fondamenta di pietra fino ai tetti di lamiera, trasportando pesanti materiali e dipingendo i muri esterni di colori allegri. Abbiamo imparato a utilizzare strumenti spesso a noi del tutto sconosciuti, come le livelle e i tubi d’acqua per verificare che i pavimenti non fossero inclinati e le pistole per silicone per sigillare i buchi delle pareti e non fare entrare il freddo. È stato un lavoro pesante da un punto di vista fisico, cui certo non ero abituata, ma reso piacevole e significativo dall’affetto delle persone del posto a noi non più estranee, che ci guardavano con occhi grati e verso cui sentivamo con orgoglio la responsabilità di fornire case confortevoli e ben fatte.

Da Cañete ci siamo trasferiti a Medellín. Lì dovevamo restaurare il Centro Solidario Juan Pablo II, situato in cima a una favela di migliaia di case di mattone rosso forato, ammonticchiate una sull’altra su una collina in periferia della città su cui affacciano, sotto l’azzurro del cielo e con alle spalle il verde della florida vegetazione colombiana. Dipingere le pareti, costruire un muro di cinta, disegnare sulla facciata una scritta colorata e attrattiva avrebbero reso più bello e ospitale il Centro, luogo dove ogni settimana cinquecento persone, soprattutto donne e bambini, trovano accoglienza in un contesto di mancanza di cibo, lavoro e istruzione. Ho percepito con chiarezza l’impatto del nostro lavoro quando l’ultimo giorno un bimbo, passando per caso davanti al Centro appena rinnovato, guardandolo ha esclamato un meravigliato “wow!”. Durante questa esperienza ho avuto anche occasione di intrattenere dei bambini: li ho fatti giocare, ho risposto alle loro curiose domande sul mio mondo a loro sconosciuto e ho ascoltato ammirata le loro aspirazioni, ma soprattutto ho cercato di farli sentire amati e ciascuno importante.

Prima di partire mi sono domandata più volte cosa cercavo in questa avventura missionaria e cosa mi avrebbe dato. Perché, si sa, è molto più quello che ricevi rispetto a quello che dai. Quello che cercavo me lo ha suggerito un compagno di viaggio americano: semplicemente “a place to be”, un posto per essere me stessa, uscire da me stessa e ritrovare me stessa. Quello che mi ha dato è molto più di quanto potessi aspettarmi, e cioè la capacità di una speciale attenzione per gli altri, di un occhio di riguardo per chi è intorno a me, ha più bisogno di me e affronta difficoltà diverse dalle mie.

Tra il Perù e la Colombia, mentre i miei compagni di missione facevano tappa a Lima, sono andata due giorni a Cuzco e sul Machu Picchu. Non potevo perdermi una delle sette meraviglie del mondo moderno e non volevo che a fermarmi fosse la paura di stare da sola e viaggiare da sola in posti sconosciuti. Messa una dose extra di coraggio in tasca, ho fatto uno dei viaggi più belli ed entusiasmanti della mia vita. E ho vinto la mia paura, facendo un passo avanti verso il diventare – come mi ha consigliato un amico più grande – la migliore amica di me stessa.

La mia esperienza non sarebbe stata completa senza l’ultima parte del mio viaggio. Finita la missione, ho passato una settimana tra Cartagena e Bogotà con una lontana zia, i suoi due figli e le loro famiglie. Ebbene, oltre ad aver visitato città stupende e piene di vita, ancora una volta sono stata sorpresa. Quelle persone, pur vivendo a migliaia di chilometri da casa mia, mi hanno confermato con chiarezza le radici che ci accomunano e che affondano nei valori di persone semplici, che partendo da un piccolo paese del Sud Italia hanno percorso con successo la loro strada nel mondo con sacrifici, dedizione, rigore, spirito di servizio e forte senso della famiglia. E in questi valori voglio blindarmi.

Tornata a Roma, tante risposte ancora non le ho. Molte sarò in grado di vederle solo più avanti, abbastanza da poter unire i puntini di un disegno molto più grande di me e affidato a mani molto più grandi delle mie. Ho però una nuova consapevolezza di me e una più forte fiducia in me stessa e nel coraggio che ho ritirato fuori. E mi ripeto: “non nasconderlo più”.


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