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Avete presente quella sensazione che si prova dopo aver segnato una rete, o, per chi come me ha uno scarso feeling con il goal, dopo aver intercettato in scivolata la palla che sta per varcare la linea di porta? E l’emozione di quando la tua squadra del cuore dopo una partita sofferta porta a casa la vittoria con un goal segnato all’ultimo minuto?
In quel sussulto, in quell’esultanza, in quell’urlo liberatorio, risiede l’essenza dello sport.
Per me lo sport è libertà, un modo per evadere dai problemi della quotidianità.
Quando faccio sport ogni altro pensiero è secondario, tutto ciò che accade fuori dal perimetro di gioco non ha importanza, quell’ora è sacra e guai a chi me la tocca. Come la mia squadra del cuore del resto. “A difesa della città e dei suoi colori” è la frase incisa sulla sciarpa che indosso quando la seguo in trasferta.
Secondo molti questa è una caratteristica che accomuna tantissimi italiani, famosi per scendere in piazza più per questioni relative al mondo del calcio che non per i propri diritti o per altre questioni di natura politica.

Eppure sport e politica, nonostante sembrino due mondi apparentemente distanti, hanno molti più punti di contatto di quanto si possa immaginare.
Lo sport è un ottimo strumento per ottenere visibilità e veicolare messaggi: sono moltissime le curve “politicizzate” che, sfruttando la risonanza mediatica, si fanno portavoce di vere e proprie campagne e lotte politiche, quasi sempre a difesa dei più deboli. Perché il calcio è uno sport popolare e le curve sono manifestazione del popolo e di quella sensazione di libertà, di evasione. Proprio per questo motivo gli ultras sono destinatari di svariate norme repressive e spesso limitative della libertà personale, il cui unico obiettivo è allontanarli dagli stadi, uccidere la loro passione e metterli cosi a tacere: perché lo sport tende ad unire e questo, oggi, fa paura. Ma lo sport senza libertà non è più sport; viene meno la sua essenza sociale e socializzante e diventa un semplice spettacolo, un business e niente più.

Qualche settimana fa, in occasione della partita tra Francia e Turchia valevole per la qualificazione a Euro2020, questi due mondi sono entrati in contatto e l’episodio ha destato enorme scalpore: i calciatori turchi sono stati immortalati mentre eseguivano il saluto militare, come a voler dimostrare il loro sostegno all’esercito turco – impegnato in operazioni militari nel nord-est della Siria contro i curdi – e di sposare così le ragioni del Presidente Erdogan che con la sua avanzata sta calpestando i diritti di un intero popolo. Quel popolo che per anni ha combattuto valorosamente l’Isis fino a debellarlo completamente e che ora, eliminato il nemico comune, si trova nuovamente a combattere per la propria libertà e la propria autodeterminazione.

In tantissimi si sono indignati per questo gesto e hanno attaccato e rimproverato i calciatori turchi, colpevoli di una simile presa di posizione mentre in Siria si sta consumando una gravissima crisi umanitaria e una sanguinosa guerra ai danni del popolo curdo per volere esclusivo del loro Presidente.
Pochi, invece, hanno sospettato che dietro quel gesto si nascondesse la paura di ragazzi come noi costretti al gesto perché rappresentanti di una nazione in cui non gli è consentito essere liberi e autodeterminarsi.
In Turchia non è garantita la libertà di espressione: chi si schiera contro il regime è privato della libertà personale, o, se ha la fortuna di vivere all’estero, è bandito dal proprio paese, come accaduto al cestista Enes Kanter. Il giocatore dei Boston Celtics, da sempre dichiaratamente in contrasto con le idee di Erdogan, è stato privato della cittadinanza e condannato a 4 anni di carcere. Ciò tuttavia non ha frenato la voglia di dire la sua e di denunciare ancora una volta gli abusi di Ankara e afferma: “Essere il portavoce di questi ideali per un turco vuol dire rischiare la prigione e la violenza da parte dei militari. Mi hanno chiamato terrorista, hanno chiesto all’Interpol di arrestarmi. Starei marcendo in galera se fossi tornato in Turchia. Il mio problema non è con il mio Paese, ma con il regime del mio Paese. In Turchia non c’è nessuna libertà di parola, nessuna libertà di religione, nessuna libertà di espressione. Non c’è democrazia – continua Kanter – Erdogan sta usando il suo potere per abusare e violare i diritti umani. Il mio obiettivo è essere la voce di tutte quelle persone innocenti che non ne hanno una”.

La vicenda del cestista turco sembra avvalorare la tesi secondo cui i calciatori della nazionale siano spinti dal timore di chi non è libero di autodeterminarsi ed esprimere il proprio pensiero ed agisce in quanto costretto. Ecco cosa significa vivere in un regime dittatoriale.
Un altro incontro\scontro tra sport e libertà si è verificato simultaneamente a Pyongyang, dove per la prima volta il regime nordcoreano ha permesso la disputa di una partita ufficiale tra la nazionale di casa e quella della Corea del Sud. A causa delle tensioni tra i due Paesi e per il timore che un’eventuale sconfitta della sua nazionale fosse ripresa e quindi documentata, il Presidente Kim Jong-un ha blindato lo stadio, impedendo ai tifosi di assistere allo storico incontro e ai giornalisti di riportarlo. La normalità, in una dittatura come quella nordcoreana.

Non è normale, invece, che limitazioni simili avvengano anche in paesi liberi e democratici, tra cui il nostro. Basti pensare alla tessera del tifoso, all’art. 9, alle trasferte vietate o al divieto di introdurre tamburi, megafoni o altri strumenti privi di alcuna pericolosità ma funzionali unicamente a rendere quell’occasione un momento di festa, di evasione.

Lo sport è libertà, unione, condivisione; svolge una funzione socializzante, mette tutti sullo stesso piano senza alcuna distinzione o discriminazione. Tutti questi provvedimenti però lo stanno trasformando in un semplice spettacolo, in un fenomeno scevro di ogni valore ma unicamente figlio del dio denaro. E lo sport, senza libertà, non è più sport.


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