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Andando alla ricerca di sviluppi d’interesse per noi fuorisede rimasti al Nord causa lockdown, mi sono spesso imbattuta nella parola “untore”: ho dunque incolpato la mia eventuale ignoranza del reale significato del termine – se così abusato –, e quindi l’ho cercato sulla Treccani; non vi sorprenderà il significato:

Untóre: Coloro che nella peste di Milano del 1630 furono sospettati di diffondere il contagio ungendo persone e cose (…) con unguenti malefici; contro di essi si scatenò l’ira popolare, si dette anche corso a persecuzioni. Non v’è però rispondenza della definizione, storicamente esplicativa, con il presente; per cui non me ne voglia la Treccani se ne ho elaborato un’altra: Untóre: Diffusore incauto di coronavirus che grava sulla già malconcia sanità di Regioni che fanno ancora i conti con la “Questione Meridionale”. Mosso da comprensibile paura o da inciviltà causa depennamento della materia “Educazione Civica” dai programmi scolastici, elude i DPCM per accalcarsi in stazioni e/o aeroporti o, se già nella sua residenza, per uscire causa “zonzo”. Sfruttatore di propaganda social tramite reperti fotografici correlati da immancabile #IoRestoaCasa, non indica di quale congiunto sia la non sua casa. Non è sinonimo di fuorisede, sebbene i termini siano più volte accostati. Es. “Untori, tornate solo per portarci il virus”.

Qui mi rifaccio al molto apprezzato articolo del mio amico Osvaldo Vetere, “Il diritto di tornare a casa”, in cui il validissimo autore rimarca l’importanza favorire il rientro dei calabresi dislocati al Nord; cito testualmente: “non è facile vivere e affrontare questa emergenza in una casa che non è la propria, (…) vivere soli e lontano dai propri cari e non è facile neanche a livello economico quando non puoi lavorare a causa dell’emergenza o quando sei uno studente e i tuoi non possono mandarti soldi”. Amico mio, giusto una postilla: non è facile neppure essere esposti alla pubblica gogna solo perché vuoi andare a casa quando “vieni liberato”.

Un’emergenza mai sperimentata necessariamente si trascina dietro svariati errori; d’altronde non c’è un prestampato con “le 10 regole del buon Governo”, di cui dotare chi è eletto a guida di un Paese. Per cui non biasimo né il Presidente Conte, né la Governatrice Santelli, né tantomeno le restrizioni. Tuttavia, da persona con spiccato civismo grazie alla presenza di “Educazione Civica” nel mio programma di scuola, non posso perdonare come noi fuorisede – legittimamente rientrati – siamo ancora adesso trattati. Molti mi hanno raccontato le loro esperienze nell’attesa – che non è mai un piacere, anzi è spasmodica – di tornare in modo “legale”. Se abiti da solo in una casa della quale paghi un affitto che non ti è stato sospeso; hai il tuo cuore lontano e da ciò sei leso; non fai la spesa perché temi il mancato distanziamento nelle code chilometriche fuori dal supermercato, e non rischi neanche la via online perché nelle sovrappopolate città del Nord il tuo ordine richiede almeno un paio di settimane; senti le sirene dell’ambulanza ogni venti minuti; non hai un medico di base cui rivolgerti se hai dei sintomi: è un’altra storia, davvero. Sogni la normalità, affidandoti a tecniche di rilassamento imparate online, a pagine che nessuno leggerà, ed a pianti isterici perché sei stanco di sentire che “Andrà tutto bene”.

Andrà bene solo quando rientrerai, stanco, nella tua casa di bambino. Non un ritorno trionfante: dalla Calabria sei pur sempre andato via, ma mai fuggito. La tua Terra ti ha sempre richiamato, come nella frase di “Venuto al mondo” che recita: Tieni un capo del filo, con l’altro capo in mano io correrò nel mondo. E se dovessi perdermi tu tira. Lei tirerà sempre il filo che vi lega, lungo abbastanza da farti vedere il mondo, troppo lungo quando la vita ti costringe a restarne fuori.

Quando siamo riusciti a rientrare, tutti ci siamo sottoposti a tampone, sebbene non fosse obbligatorio: abbiamo di nuovo fatto la cosa giusta. Il nostro premio? Quarantena obbligatoria. Più che lecito, naturalmente, se non fosse stata refertata e resa nota dai telegiornali la negatività di tutti tamponi in entrata dei fuorisede calabresi. E gli altri al bar. Che senso ha poi ritornare, se la nostra Terra non ci difende da chi imperterrito sostiene, nonostante le evidenze, che se i contagi risaliranno sarà colpa dei fuorisede?

Cari organi regionali, dopo averci sedotto ci abbandonate di nuovo, fate in modo che l’opinione pubblica ci dipinga come paria indifendibili. E noi che volevamo solo tornare a casa in sicurezza dopo sacrifici di due mesi, magari senza straparlarne, sperando in un po’ di rispetto o, semmai, di riconoscenza. Danno e beffa. Mi rifugio tra le pagine della Treccani, cerco un vocabolo che riassuma come mi sento.

Amarézza: Sapore di ciò che è amaro. In senso fig., dolore, tristezza mista a un sentimento di contrarietà, talora a lieve rancore. Amarezza di mamma, che appena mi ha visto mi ha detto: “hai gli occhi diversi”; amarezza di amici e conoscenti, che mi han detto “Il crimine paga, dovevamo scendere senza essere in regola”. Cari tutti: è davvero questo il messaggio che volete passi?

di Ludovica Serafini


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