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Giuseppe De Rita

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È un’Italia più fragile e disunita quella che prova faticosamente a lasciarsi alle spalle l’emergenza coronavirus. Per risorgere, prima ancora che l’apporto economico e politico, serve riscoprire il valore del sociale. Lo spiega al Quotidiano del Sud il sociologo Giuseppe De Rita, presidente e fondatore del Censis, che il 28 maggio darà alle stampe il libro “Il lungo Mezzogiorno” (ed. Laterza).

Il volto sociale dell’Italia come esce da questa crisi?

Incerto e spaesato. Mancano un traguardo e un ritmo, soprattutto si avverte l’assenza di un sentimento unitario. Ne usciamo più divisi che mai: la pandemia ha profondamente segnato la Lombardia, mentre nel Mezzogiorno non è stata vissuta la stessa tragedia.

E come si riacquisisce il sentimento unitario?

Non lo si fa in due minuti. Come avvenne nel ‘45, sarebbe necessario uno choc vero, un grande stimolo per una ripresa. Spesso si paragona questa pandemia alla guerra, ma chi ha visto gli eventi bellici sorride al confronto. Rimanere chiusi in casa per due mesi è un choc morbido, non è tale da suscitare una voglia di riscatto collettiva.

La paura, la diffusa delazione hanno eroso il clima sociale?

La delazione è un fenomeno che c’è stato, cui ho assistito anch’io nel mio quartiere di Roma. Ma più che su questo aspetto, mi soffermerei sulla paura, che è il sentimento che lo ha scatenato. Dalla paura deriva la rabbia, che deve sempre rivolgersi contro qualcuno: in questo caso il nemico non era definito, perché il coronavirus è un batterio, e allora il nemico lo si è cercato in coloro che contravvenivano alla propria paura. Di qui le delazioni e gli insulti al condomino perché senza mascherina.

La paura finirà?

L’incertezza di cui parlavo prima non aiuta. Ma non può accompagnarci per sempre.

Quanto influisce questa incertezza sulla politica?

Politica e società ormai sono due corpi paralleli. Non è più come un tempo, quando la politica era dettata dall’ideologia, che a sua volta scaturiva dalla realtà sociale. Oggi la politica vive una dimensione a sé stante, segue delle logiche interne, avulse da quanto avviene al di fuori del palazzo.

La sospensione di alcuni diritti costituzionali durante lo stato d’emergenza minaccia la stabilità democratica?

Non sono due Dpcm a minacciare la stabilità democratica e nemmeno i poteri assegnati in modo provvisorio a un Comitato tecnico-scientifico. Si tratta di una verticalizzazione del potere che periodicamente è avvenuta in momenti d’emergenza della nostra storia.

In quali altri momenti negli ultimi 70 anni c’è stato qualcosa di simile?

Una verticalizzazione del potere ci fu nel biennio 47-48 da parte di De Gasperi, con la fine del Cln (Comitato liberazione nazionale) e della cooperazione tra i partiti. Per molti versi anche durante il rapimento Moro, perché si ebbe la percezione di un attacco allo Stato.

Nel suo libro scrive che «non è l’economia che traina il sociale, ma il contrario». Come si declina concretamente questo concetto nel Mezzogiorno?

Si declina nella sua negazione. Nel secondo dopoguerra si diffuse l’idea che la ripresa del Sud non potesse prescindere dall’industrializzazione, dalle infrastrutture, dalla Cassa del Mezzogiorno. Questa convinzione si è sedimentata e ha ridotto il valore dell’aspetto sociale. Invece, come spiego nel libro, il sociale è l’architrave della ripresa economica.

La diffusione del Terzo Settore anche al Sud dimostra che questa convinzione sta cambiando?

Credo di sì. La presenza del Terzo Settore nel Mezzogiorno dimostra che in tanti hanno preso coscienza che il popolo deve avviare processi di autocoscienza, di maturazione e impegno, non può restare passivo ad aspettare che vengano costruite industrie o rovesciate colate di cemento per costruire infrastrutture.


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