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L'ospedale Forlanini

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La coltre di polvere e smog annerisce le iscrizioni in bassorilievo che si allungano sino al cancello d’ingresso senza riuscire a nascondere l’antico splendore dell’ex ospedale “Carlo Forlanini” di Roma (LEGGI LA NOTIZIA DELLA RICHIESTA DELLA SUA RIAPERTURA). La struttura sorge all’interno di un più vasto hub di eccellenze sanitarie. L’istituto “Lazzaro Spallanzani” – oggi capofila laziale nella lotta al Coronavirus – è alle spalle, sulla via Portuense, mentre scendendo verso Trastevere, sulla circonvallazione Gianicolense, il triangolo si chiude con il “San Camillo”, fratello e carnefice del Forlanini, avendone progressivamente ereditato reparti, degenti e personale, sino a diventare “Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini”.

Ciascuno di questi nosocomi è stato pensato per una specifica funzione: il Forlanini, nello specifico, fu aperto nel 1929 come sanatorio dedicato a una delle malattie più temute del tempo, un autentico flagello: la tubercolosi. Così si spiega il vasto parco alberato dentro cui è inserito, che avrebbe dovuto assicurare la giusta ossigenazione ai polmoni malandati dei ricoverati. Sarà, forse, per la sua originaria vocazione pneumologica che oggi se ne sta chiedendo a gran voce il riavvio, sull’onda dell’epidemia di Covid19. Allo Spallanzani, certo, farebbe comodo poter contare su un ampio – e vicino – polo da dedicare alla terapia intensiva.

La proposta è diventata oggetto di una petizione su Change.org, rilanciata – fra gli altri – dalla sindaca Virginia Raggi. «Negli ultimi anni sono stati chiusi diversi ospedali storici in città– ha scritto su Facebook -. Bisogna fare il possibile per riaprirli». Oltre al Forlanini la prima cittadina ha citato anche il “San Giacomo degli incurabili” di via del Corso, mandato in pensione nel 2008 dopo quasi 700 anni di onorato servizio (era stato aperto nel XIV secolo). Al Forlanini la stessa sorte è toccata nel 2015, per le medesime esigenze di razionalizzazione della spesa sanitaria nel Lazio. Una scelta, vista oggi, piuttosto miope in una Regione che ora come ora non potrebbe far fronte a uno scenario simil lombardo di ricoveri.

Alla cura dimagrante a colpi di tagli e accorpamenti – che ha progressivamente indebolito il pur eccellente sistema sanitario italiano – ha fatto da contraltare la sprecopoli degli ospedali abbandonati, mai aperti o destinati alla chiusura, nonostante le ingenti risorse investite. Se ne è occupato, di recente, un reportage del format di Rete Quattro “Fuori dal coro”, condotto da Mario Giordano. Due i casi emblematici del Mezzogiorno. Il primo è quello del “Michele Sarcone” di Terlizzi (Bari), che rischia di veder chiudere il pronto soccorso e i reparti di medicina e pneumologia in piena emergenza coronavirus e nonostante i 13 milioni euro investiti per l’ammodernamento.

La questione è stata oggetto di una durissima lettera/appello del sindaco Ninni Gemmato al governatore pugliese Michele Emiliano. «La chiusura del Pronto Soccorso, l’azzeramento di medicina e la definitiva soppressione di pneumologia nell’ospedale di Terlizzi non sono misure adeguate per fronteggiare l’emergenza legata ai contagi da Covid-19 – si legge nella missiva -. Né tantomeno possono considerarsi utili per contenere o ridurre i contagi.

Al contrario riducono drasticamente i servizi assistenziali essenziali per i pazienti acuti in tutto il Nord Barese dato che l’intero bacino Molfetta, Terlizzi, Corato, Ruvo di Puglia, Giovinazzo e Bitonto, con una popolazione di 200 mila abitanti circa, rimarrà senza posti letto di Pneumologia anche quando l’emergenza coronavirus sarà passata». Impressiona, in particolare, lo stato di abbandono nel quale versano i macchinari per la respirazione assistita, fondamentali se l’epidemia dovesse far registrare numeri importanti anche in Puglia.

C’è poi il caso dell’ospedale di Rosarno (Reggio Calabria), per la cui edificazione furono investiti 7 miliardi di lire. I lavori sono iniziati nel 1976 per finire 15 anni dopo, nel 1991. La struttura, però, non ha mai preso servizio e oggi versa in stato di grave abbandono, è stata oggetto di furti (dai cavi elettrici, agli armadi, sino ai letti) e atti vandalici, venendo spesso usata come stalla per animali da fattoria.


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