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Una libreria

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4 minuti per la lettura

Dove un tempo c’erano i volumi Adelphi ora c’è il plastico del castello di Hogwarts di Harry Potter, nella versione in mattoncini della Lego. Ambientazioni e frasi che appartenevano all’immaginario del lettore e stavano rinchiuse dentro a un libro, sono state tirate fuori dalle pagine: riprodotte, troneggiano sugli scaffali. Le librerie sono state trasformate nei posti meno frequentabili per chi i libri li ama davvero.

Adottato il mercato come unico parametro, non esiste più un chiaro metodo di classificazione che permetta di rintracciare un volume. Vige la classifica, una corsa alla vendita a cui non partecipano scrittori, ma personaggi. La faccia dell’autore, che solo di recente era passata dall’essere un mistero fino all’apparire in quarta di copertina – un’epifania, come raccontò Baricco che da giovane cercava il viso del musicologo Mila – da lì, con carpiato di pixel, si è trasferita direttamente sulle pareti. Che si tratti dei cartonati di indiscutibili autori del passato (una gigantografia di Pasolini ci sta sempre…) o di discutibili autori moderni, il messaggio è nell’immagine che copre lo svuotamento di lingua, mondo e storie.

Un’immagine appesa alla parete di un negozio come un altro. Ma la libreria non era un negozio come un altro. Lo è diventata perché ha perso il mistero, sostituito da una fabbrica di strategie promozionali ed effetti speciali. È arrivata Amazon, e con Amazon la “contiguità supermercata”. Fin dalla vetrina si annuncia il conformismo: una impalcatura di nulla sulle fondamenta del niente, ma con tante facce che sorridono, le stesse che appaiono in tivù, teatro, cinema, sui giornali e sempre – a eterna liquida memoria – sui social, in un’inquietante ubiquità.

Il tempo, che i veri romanzi dilatano e i veri saggi provano a smontare, viene piegato alla rapidità: l’ultimo libro è sostituito dall’ultimissimo. In un anno possono esserci più uscite di De Giovanni che partite della Nazionale. Girare tra gli scaffali equivale al vecchio zapping: la tivù dal video è passata alle pagine, tanto che Eco oggi non scriverebbe “Fenomenologia di Mike Bongiorno” ma di De Giovanni, a cui vengono dedicate pile votive, come a Carofiglio. Ma è comunque poco a confronto con le piramidi camilleriane erette in ogni libreria d’Italia. Sotto questo faraone del mercato editoriale prosperano Saviano, Volo, Pif, Piccolo, Sveva Casati Modigliani, Premi Strega ed Elmi di Scipio, e di lato la Ferrante, da poco divenuta Sfinge grazie anche alla serie tivù.

Il mazzo di carte è sempre lo stesso e si aggiorna solo con le morti. Nella sceneggiatura della Ferrante si ritrova Piccolo, che poi incontra Pif nel nuovo film di Luchetti tratto dai suoi libretti di momenti trascurabili e non di felicità, che passa a Veltroni che chiama Veronesi che promuove Missiroli che insidia Scurati che cita Saviano che, in un articolo, aspetta i Big Mac che gli porta Piperno, che sogna Proust ma gli appare Paolo Giordano.

Pochi nomi costituiscono una sorta di Olimpo eretto sul fatturato, un magma che ribolle di banalità, dove l’unica variante è data dalle loro cartelle cliniche, brame, invidie, nascite di figli, spostamenti di letto e città, aggiornamenti senza nutrimento dati in pasto al lettore. Le librerie di oggi sono diventate condomini, nei quali il libraio è ridotto a un portiere che assolve i compiti di pulizia e spostamento. Lasciando fissi gli altari votivi, le piramidi, la sfinge, ogni settimana si accavallano le novità. Con un’unica divisione: non tra libri buoni e cattivi, libri belli o brutti, ma tra libri pubblicizzati o meno.

Un libro che non si vende, scompare: questa sembra essere la logica. Ma è anche vero il contrario: un libro che difficilmente si rintraccia tra gli scaffali, non si vende e scompare. Lo straripante condiziona la scelta, l’occupazione dello spazio visivo chiude l’orizzonte e influenza l’acquisto. Una collina di copertine esposte in centinaia di copie occulta il deserto d’anonimi, o quasi, condannati alla compressa verticalità del dorso, libri perduti, nonostante gli sforzi degli uffici stampa. Sono lontani i tempi in cui le librerie erano i luoghi che ci liberavano dalla nostra condizione limitata, arricchendoci.

La narrativa italiana adagiata sui tavoli non va oltre l’intrattenimento, inseguendo il presente e non l’eterno. Persino la poesia, ultimo rifugio del disperato lettore autentico, occultando Raffaello Baldini, propina i telegrammi celentaneschi di Franco Arminio, implodendo nel puerile, abbracciando gli alberi e dimenticando l’endecasillabo. Nei colori delle copertine sta la prepotenza della nuova libreria, il pericolo è l’inciampo nella penombra leopardiana di un vecchio libro, nei disperati tentativi rothiani di raccontare il mondo. Non c’è posto per la lentezza né per la complessità arbasiniana, no, il romanzo di oggi è il “TV Sorrisi e Canzoni” di ieri. Scompare Goffredo Parise, appare De Cataldo. Il resto è rigurgito o tentativo.

Scurati scrive del giovane Mussolini mentre Michela Murgia misura al popolo italiano la pressione fascista (con test da vecchio “Cioè”) che minaccia l’impero della problematicità, arrivata sotto forma di tazze e tisane, muffin e coperte, in un girotondo di Gamberale, Marzano, Ciabatti, Parrella, Dandini, Mazzucco, Postorino, Stancanelli, Tamaro, che non fanno il dolore di una Ortese o l’Insciallah di una Fallaci. Tutto si mescola, in mezzo a tagliaunghie e fermacapelli, come su Amazon. I cartonati di Pif coprono i già dorsalizzati e nascosti volumi di Giorgio Manganelli. È la logica dei grandi numeri, che, come aveva previsto Grazia Cherchi, svuota le librerie di scrittori e le riempie d’autori (distratti) di “non-libri per non-lettori”.


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