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Una frase famosa

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In un programma televisivo un politico disserta: «Sapete cosa diceva del lavoro il filosofo Voltaire?». A chi la offende, una soubrette ribatte: «Panta rei». Per un critico d’arte «la mostra di Vivian Maier suscita quella malinconia che Tolstoj definiva…».

Il Paese mi appare infestato da frasi fatte e celebri. Ovunque, di continuo, avverto il ronzio di sciami di aforismi. Cerco di scacciarli come si scacciano le mosche, e mi chiedo: in Italia le parole autentiche, assieme ai pensieri autentici, sono in putrefazione? Mi convinco che troverò conforto andando alla presentazione dell’ultimo libro di una delle più acclamate scrittrici italiane: chi, più di lei, dovrebbe avere cura delle parole? Chi, meglio di lei, potrebbe restituirmi la bellezza di una lingua viva? In mezzo al pubblico in sala, una ragazzina alza la mano: «Posso farLe una domanda un po’ personale?». «Vai!» la incoraggia la scrittrice, quasi fosse pronta a svelare ogni segreto. «Anche io scrivo» confessa allora la ragazzina e arrossisce davanti a un centinaio di persone. «Ma come si fa a capire se la scrittura è la propria strada o se la propria strada è un’altra?».

Dal palco, fissando il vuoto compiaciuta, la scrittrice sorride: «Ti rispondo come ti risponderebbe Jack Kerouac…». Vorrei obiettarle: eh no! Risponda come risponderebbe Lei! Con o senza Jack Kerouac, ho un’unica certezza riguardo alla strada: quando è la propria, non si trova mai già asfaltata. La scrittrice passa in rassegna le altre curiosità del pubblico; non tradisce la minima esitazione di fronte a domande personali perché dà risposte impersonali. Parafrasa Roth, Carver, Joyce, una giostra di concetti che rimangono astratti e, ascoltandoli, sento anch’io di smaterializzarmi. Forse sono il primo caso clinico al mondo che accusa il disturbo. O forse sono soltanto la prima a dichiararlo: soffro di ansia da citazione.

Come reagirebbero alcuni acclamati autori se di colpo sparissero tutte le fonti? Se, al posto di se stessi, non potessero schierare i forti o riesumare i morti? Se suonasse un allarme ogni volta che dimenticano le virgolette e riciclano come nuova di zecca la frase di un collega che permane nella penombra, solamente perché non gode della visibilità né della rete di favori di cui loro invece dispongono? Di cosa sarebbero capaci se fossero costretti a giocare a carte scoperte e senza jolly? Sarebbero dotati di un’opinione autonoma? Dov’è la genuinità del loro pensiero? Mi torna in mente un ragazzo che al liceo aveva fama di studente modello. Un giorno, però, l’insegnante d’italiano gli fece leggere in classe una poesia e, al termine della lettura, gli chiese: «Che ne pensi?».

Di soppiatto lui si girò verso i compagni, in cerca di un suggerimento, invocando a bassa voce: «Oh… Oh… che ne penso?». Le citazioni esistono da sempre, ma in passato erano poche e strutturate. D’altronde in passato le frasi appartenevano a un volume: per citare poche righe bisognava avere letto l’opera da cui erano tratte; si conosceva l’autore e il contesto nel quale erano state scritte. Se durante la prima lettura non si aveva avuto la prontezza di appuntarle, bisognava ritirare fuori il volume dalla libreria o dalla biblioteca e, andando a memoria, rileggere paragrafi interi fino a ritrovarle. Allora quelle poche righe venivano ricopiate a penna o ribattute a macchina.

All’epoca citare una frase presupponeva due ricerche: una ricerca esterna, ampia, costituita da tutto il sapere che precedeva e circondava quella frase; una ricerca interna, profonda, in cui chi leggeva si interrogava su quale fosse il richiamo esercitato su di sé da quella frase. Se il richiamo era intenso, si procedeva a trascriverla, altrimenti ci si risparmiava la fatica. Adesso le citazioni sono diventate tappezzeria e si fanno a metraggio: interi articoli, interi periodici, sono rivestiti di aforismi.

Le frasi si trovano su internet, scisse dall’opera a cui appartenevano, rimbalzano da un profilo all’altro sui social network. Non esiste ricerca individuale. Esiste un motore di ricerca: basta inserire l’argomento o qualche vaga parolina chiave, ed esce precisamente ciò che si stava cercando. Si può citare una frase sulla felicità e ignorare che è di Dante, che è contenuta nella Divina Commedia e a che periodo storico risale. Si può trovare la stessa frase, identica o con qualche variazione di forma, attribuita a un altro autore. Con un dito si seleziona, si copia e incolla. Il mondo della cultura oggi dovrebbe risultare arricchito dal serbatoio di frasi preconfezionate a disposizione, invece ne risulta assottigliato: quante citazioni vengono strumentalizzate, piegate a un significato diverso dall’originale; quante recensioni s’improvvisano; quanti brodi fatti con carni cucinate da altri. Se non è costato pensare una frase, se non è costato trovarla e non è costato nemmeno copiarla, come può essere stata interiorizzata e rielaborata? C’è il rischio che il linguaggio si svuoti dei contenuti. «Non ti sembra che in giro ci sia un eccesso di citazioni?» chiedo a una mia amica.

«Che vuoi farci?» mi risponde lei, «Come diceva qualcuno, “Siamo nani sulle spalle dei giganti”». Ma non sono i giganti, sovraccaricati, a sembrarmi in difficoltà. Siamo noi. A forza di non camminare con le nostre gambe, i nostri muscoli si atrofizzano. Allo stesso modo, le nostre parole e i nostri pensieri perdono la capacità di movimento autonomo se continuiamo a poggiarli sulle parole e sui pensieri di altri. Diventeremo come quegli uccelli che, pur avendo le ali, per il disuso hanno perso la capacità del volo.


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