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Stefania Auci

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«Ero su un altro progetto quando un mio amico mi disse: perché non ti dedichi a una saga familiare? Lo presi per pazzo».

Stefania Auci ride, ma alla fine quel libro lo ha scritto davvero. O almeno la prima parte, I leoni di Sicilia, uscito a maggio per i tipi di Nord, non racconta soltanto l’ascesa e la caduta di una famiglia. Entra nelle pieghe di una storia tutta siciliana, i cui capitoli spesso sono consegnati più alla leggenda che alla cronaca. Fra le pagine della Auci scorre la vita dei Florio, dinastia imprenditoriale calabro-sicula.

Non di Donna Franca, icona della Belle Époque siciliana conosciuta dai più – per lei bisognerà attendere il secondo volume – ma quella di un cognome partito dal nulla e arrivato a incarnare l’idea stessa di Palermo e della Sicilia. 1799, Bagnara Calabra. Paolo Florio, insieme al fratello Ignazio, alla moglie Giuseppina, alla nipote Vittoria e al figlio neonato Vincenzo, assiste impotente all’ennesimo terremoto che violenta la sua casa. È un déjà vu: un altro sisma, non troppi anni prima, gli ha già portato via i genitori. Sarà la rabbia e la voglia di riscatto a spingere questo sparuto nucleo familiare oltre lo stretto di Messina, in una Palermo affascinante quanto spietata.

Le prime pagine del romanzo firmato dalla Auci scorrono più lentamente rispetto alle successive, come se la stessa autrice avesse bisogno di conoscere meglio i suoi personaggi, di assorbirne pensieri ed emozioni. È così per Ignazio, il fratello minore, rimasto ancorato a ciò che è sopravvissuto della sua famiglia con la devozione di un monaco laico. È così per Paolo, che incarna il rude pragmatismo “sudore e sangue” di chi arriva dal niente. E vale anche per Giuseppina, moglie rabbiosa, sofferente e mai rassegnata all’addio forzato alla casa di Bagnara, quella in cui vorrebbe morire. Il prologo di una storia vera, per quanto romanzata, che a tratti ricorda i malavoglia di Verga.

«È un camminare sulle spalle dei giganti. Io ringrazio il cielo che in Sicilia ci siano stati dei narratori di questo tipo. In certi momenti, quando ero in crisi, mi dicevo: «Ok, va bene, ora leggo il Gattopardo» confida infatti la scrittrice. Quello di Auci non è il primo libro dedicato alla dinastia di imprenditori palermitani, nati pescatori e passati in poco più di un secolo dal successo alla rovina. Per la prima volta, però, si sceglie il romanzo per dare forma a una storia che già in tanti hanno raccontato. Dove si fermano le ricerche storiografiche, i documenti e le cronache, inizia la personalissima versione di una storia che in Sicilia rasenta la mitologia. Nelle carte ufficiali, degli amori taciuti, di quelli mancati, dei rimpianti e delle maledizioni non c’è traccia. La penna dell’autrice colma il vuoto, restituendo voce e identità a persone, non solo personaggi. Soprattutto a quelli femminili.

«Delle due figure femminili non c’è quasi nulla, ci ho lavorato pensando che se hanno compiuto certe scelte nella vita dovevano avere un determinato tipo di carattere» dice la Auci. «La condizione della donna mi è stata sempre molto a cuore, ne ho parlato sempre e continuerò a parlarne. Cercavano il loro spicchio di potere in uno spazio in cui per loro non ce n’era. massimo poteva essere l’influenza sui figli. Tratto incarnato dalla Giuseppina della Auci, una donna che a un marito mai amato ha sostituito un figlio che è “carne sua” e che non intende dividere con altre donne. E con la stessa Palermo. Il giovane Vincenzo non è un “bagnaroto”. Quando arriva in Sicilia è abbastanza piccolo da farsi adottare dalla città.

«Non sono solo i Florio. Sono i Florio a Palermo» puntualizza con una punta di orgoglio l’autrice. Odori e colori, spesso quelli delle spezie e del porto, diventano la carta d’identità di una Palermo che, ancora oggi, è possibile ritrovare grattando appena sotto la superficie. «Palermo è fatta a strati» racconta la Auci, trapanese di nascita, palermitana per scelta. «Un bellissimo libro di Roberto Alajmo dice che la città è una cipolla. Bisogna solo avere la voglia di sollevare di volta in volta i veli. Ci sono posti in cui il tempo sembra arrotolarsi su se stesso». In altri, invece, sembra semplicemente che il tempo non abbia accesso.

«La zona di Via dei Materassai, dove si trova la prima ​putìa​ dei Florio, non è cambiata molto. È una stradina stretta, in cui anche oggi puoi chiedere alla dirimpettaia di passarti la brocca dell’acqua».

Con una scrittura asciutta ed essenziale, I Leoni di Sicilia offre anche alle nuove generazioni l’opportunità di avvicinarsi a una storia ferma fra mito e vita vissuta. Una favola che non lo è, ma che rimane patrimonio di tutti.


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