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Andrea Camilleri

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All’Auditorium di Roma, durante un’intervista, Camilleri aveva confidato al pubblico il suo più grande sogno. 

«Si apre il soffitto» aveva detto, e tutti avevano guardato su. «Si sporge una mano e si sente una voce che dice “Permette, mister? Sono William Shakespeare. Sa che il suo Montalbano mi piace proprio!”». 

Ascoltandolo, eri pronto a scommettere che avrebbero avuto qualcosa da dirsi quei due, che quell’inglese e quel siciliano avrebbero trovato una lingua mischiata per intendersi e continuare a raccontarsi e a raccontare storie. 

Adesso il soffitto si è aperto e Camilleri sembra dire: aspetta, non ancora, un’ultima sigaretta.

Questo numero di Mimì è dedicato a lui. Che vi piaccia o no, quando ne parlate, state parlando di un maestro, anche se a lui irritava essere chiamato così. 

Senza Camilleri, siamo tutti più scoperti. Ci sarà un momento in cui avremo bisogno di una sua battuta, del suo spirito di osservazione, del suo infinito serbatoio di esperienze, ci chiederemo «Cosa avrebbe detto Camilleri?», e tenteremo di immaginarlo, con la certezza che lui, comunque, l’avrebbe pensato e detto meglio.

Già in questi giorni ce lo chiediamo: cosa avrebbe detto Camilleri dell’odio, poco a confronto dell’affetto, che gli sta orbitando attorno? 

Camilleri resta in silenzio e forse è questa l’ennesima lezione che ci sta dando.

Una società che non ha rispetto per la morte, non ha rispetto per la vita e viceversa.

Se c’è una cosa che Camilleri ci ha insegnato è che il linguaggio non è fatto soltanto di parole giuste, ma di pause giuste e della giusta lentezza che accompagna il pensiero alla parola. Invece abitiamo in un’epoca in cui sembra che per esistere sia necessario parlare in fretta, a voce alta e provocatoriamente.

«Se ho avuto aperta la fantasia e sono diventato scrittore, lo devo a mia nonna Elvira» ha raccontato in un’intervista. Nonna Elvira parlava agli oggetti, alle piante e agli animali, inventandone nomi e storie. Un giorno la nonna lo chiamò con il nomignolo con cui era solita chiamarlo. «Nenè, vedi quel grillo? Si chiama Ernesto. Ti dovresti presentare a lui». Quel giorno nonna Elvira fece un passaggio di testimone e lo stimolò al racconto. 

Tutto iniziò da quel grillo.

Ciò che sua nonna fece con lui, quel bambino, ormai novantatreenne, l’ha fatto a sua volta con la propria pronipote Matilda. Considerando che non avrebbe avuto il tempo di farsi conoscere da lei, le ha scritto una lunga lettera nella quale si racconta direttamente. “Lettera a Matilda” termina con «Ora dimmi di te». Non esiste parola vera senza ascolto.

Oggi il nostro pensiero va al maestro, allo scrittore, all’uomo, a quel bambino che un giorno si presentò a un grillo.

Grazie, Nenè.


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