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Già da bambina doveva avere un’indole gentile ma ferma, Dacia Maraini.

Per capirlo basta cercare in rete qualche vecchia fotografia, in cui la si può vedere in braccio alla madre, la fascinosa nobildonna Topazia Alliata di Villafranca, pittrice e gallerista palermitana. La stessa indole ferma che dimostra ancora oggi quando – tra i pochi intellettuali italiani (e di certo tra i più autorevoli) – prende posizione in favore dei Curdi attaccati da Erdogan: «In ciò che sta avvenendo in questi giorni c’è un aggressore e un aggredito. Noi dobbiamo essere dalla parte di quest’ultimo», ha detto la scrittrice all’Huffington Post.

Come dire che in certi momenti bisogna chiamare le cose col loro nome, perché a parole ambigue corrispondono posizioni ambigue. D’altronde lei l’orrore della guerra – insieme all’importanza di dare il giusto nome alle cose – ha imparato a conoscerlo in prima persona, da piccola. È successo nel primo dei tanti capitoli di una vita che proprio di parole – e di incontri, suggestioni, viaggi – si è nutrita.

Anche per questo potrebbe sembrare difficile chiedere a una come lei, che quando era ancora una bimba aveva già viaggiato dall’altra parte del mondo, quali sono le parole che “fanno casa”.

Occorre una domanda preliminare: dove si trova la casa di Dacia Maraini?
«La prima è stata a Fiesole, in una torre alta, senza ascensore», racconta a Mimì, «ma a un anno sono partita per il Giappone, quindi la vera casa di cui ho memoria sta a Hokkaido».

Nell’isola più settentrionale dell’arcipelago nipponico la famiglia si trasferisce nel 1938, quando il padre, Fosco – grande etnologo e orientalista – vince una borsa di studio per svolgere delle ricerche sul popolo Ainu. Qui, non lontano da Sapporo, tra paesaggi struggenti e a contatto con una cultura raffinata, la futura scrittrice trascorre i primi anni di vita. Ed è proprio dal Giappone di tanti anni fa che riaffiorano modi di dire ed espressioni che la riportano alla sua fanciullezza.

«C’è una canzone, per esempio – ricorda – che mia madre mi cantava, che cominciava con Haru ga chita, haru hìga chita, docu mo chita… che vuol dire la primavera è arrivata, la primavera è arrivata, ma dove è arrivata? ».
Con le parole tornano alla mente anche gli odori e le impressioni: «Il profumo del riso appena cotto, dei dolcetti alla soia di cui ero ghiotta, e dei fiori di crisantemo».

E poi, «la neve dell’Hokkaido. Mi rendeva felice correre sulla neve, uscire dalla finestra perché la porta era rimasta sepolta e ghiacciata».

Di suo padre – che fu anche alpinista, fotografo, scrittore e poeta – Dacia rammenta che «non parlava da etnologo ma certamente il suo pensiero e il suo rapporto col mondo avevano un’impronta antropologica. E questo credo di averlo ereditato. Ho un grande interesse per la storia dei popoli, detesto il razzismo e credo che la conoscenza stia alla base di ogni rapporto fra culture e lingue diverse».

Nel nord del Giappone l’esistenza della famiglia va avanti serena. Nascono altre due bambine, Yuki e Toni. Gli eventi della Storia, tuttavia, stanno per bussare alla porta. Scoppia la guerra. Nel 1943, quando l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati, i Maraini sono ancora nel Sol Levante.

Il governo di Tokyo chiede a Fosco di aderire alla Repubblica sociale, ma lui rifiuta. E così la famiglia finisce in un campo di prigionia. È un periodo durissimo: la piccola Dacia – che ha appena sette anni – conosce i maltrattamenti e le umiliazioni dei carcerieri. E la fame. Ma anche in quella condizione disperata, i suoi genitori non tentano di edulcorare la realtà. Anzi, proprio quella diventa l’occasione per scoprire il significato profondo delle parole. Per distinguere, una volta per tutte, il bene dal male: «Mi hanno sempre parlato chiaro. Ho saputo fin da piccola che il fascismo era una idea distorta e pericolosa, che il razzismo era odioso, che noi eravamo in campo di concentramento per avere difeso una idea di libertà e di democrazia».

Finito il conflitto la famiglia è finalmente liberata e può rientrare in Italia.
Si apre un periodo di incertezza economica e non solo. I genitori si separano e Dacia segue la madre in Sicilia, dove gli Alliata possiedono un’azienda agricola. Dopo Hokkaido, un’altra isola. Qui alle suggestioni dell’estremo oriente se ne sommano altre: «Ricordo gli odori dell’uva appena pestata e del mosto dal profumo inebriante. Il padre di mia madre aveva una casa vinicola e spesso stavo con lui. Nonno Enrico era una persona speciale: amava leggere, conversare, era tolstoiano, lavorava coi contadini nelle vigne e pensava che le donne dovessero essere autonome e indipendenti, cosa rara in quel periodo in Sicilia».

Dacia trascorre otto anni a Palermo. Dai vocaboli giapponesi dell’infanzia si passa a un altro idioma. Un nuovo bagaglio di parole, destinato a condizionare e arricchire la sua opera di scrittrice, da Bagheria a La lunga vita di Marianna Ucrìa.

«Parlavo benissimo il siciliano, che è proprio una lingua, più che un dialetto», racconta. «Ancora oggi, alle volte, mi vengono alle labbra espressioni siciliane di grande intensità e incanto. Per esempio, il proverbio che dice: A lingua nun avi ossa ma rumpe l’ossa, che mi pare molto espressivo».

A Palermo Dacia si immerge anche nel lessico famigliare della casa materna. Perché, come spesso accade nelle antiche famiglie, anche gli Alliata parlano una lingua un po’ speciale, che ne rivela le connessioni internazionali: «Niente di aristocratico», assicura, «semmai qualche parola spagnola che si insinuava nel linguaggio quotidiano, perché la madre di mia madre si chiamava Sonia Ortuzar ed era cilena. Ricordo che il cane diventava perro, che il sonno diventava sueño, bello diventava hermoso e albero diventava arbol».

Ma il proprio bagaglio di vocaboli è destinato, prima o poi, a incontrarsi – e qualche volta a mescolarsi – con quello delle persone con cui si sceglie di vivere. Così, quando Dacia Maraini, trasferitasi a Roma, inizia la sua storia d’amore con Moravia, il suo lessico famigliare incontra quello di lui: «Alberto era cresciuto nel mito della lingua francese. Lo parlava benissimo e conosceva perfettamente gli scrittori francesi, soprattutto i poeti, che citava spesso a memoria. Un po’ come gli scrittori russi prima della rivoluzione, metteva lì spesso delle espressioni francesi. Non aveva niente del borghese pariolino. La sua lingua infantile, semmai, aveva qualche parentela col veneto, perché il padre era nato e cresciuto a Venezia».

Nella Capitale la giovane scrittrice frequenta i più grandi intellettuali e artisti del tempo. Ma c’è una persona in particolare – parlando di lessico famigliare – che non può non essere citata: Natalia Ginzburg. Dacia Maraini ne serba un’immagine di «donna ironica e sapiente», che amava «invitare a cena gli amici nella sua bella casa vicina a piazza Argentina. Si parlava di libri e di teatro e di tante altre cose in casa sua. Me le ricordo come delle serate ricche e intense».

Momenti in cui di certo le sarà tornato utile ripescare nel suo patrimonio di “parole di casa”, forse persino quelle giapponesi dei tempi della fanciullezza. E quando le si chiede quali sono, secondo lei, le parole che oggi andrebbero salvate dall’oblio, non ha dubbi: «Non parlerei di parole, ma di linguaggio. Il linguaggio parlato si è raggrinzito, impoverito e semplificato fino a diventare insapore. Dovremmo ritrovare il sapore delle parole, la sensualità delle parole, l’allegria delle parole e la loro grazia incantatrice».


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