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Giovedì prossimo si celebrerà negli Stati Uniti il Giorno del Ringraziamento.
Un “grazie” non costa niente e spesso viene detto in automatico.

Provare gratitudine è tutt’altra cosa: è un sentimento che non si può mai dare per scontato, difficilissimo da dosare.

Ci sono quelli che ringraziano nel ricevere anche ciò che spetta loro di diritto. Hanno la sensazione di essere costantemente in debito e, nel tentativo di colmarlo, si spendono nel dare, prodigando tutti se stessi. Il guaio è che, a volte, grati di una frase affettuosa o di una promessa
ricevuta, restituiscono azioni concrete, tempo e impegno, rimettendoci nel cambio di valùta. Quando non devono dire “grazie” a nessuno, ringraziano comunque Dio.

Ci sono quelli che, invece, la gratitudine non riescono proprio a provarla. Dentro di sé tengono un elenco nel quale trascrivono soltanto ciò che danno, anche se si tratta di poca merce deteriorabile; non riservano mai un rigo per ciò che ricevono, anche se si tratta di beni di lunga durata. Temono che ammettere di aver ricevuto aiuto comporti un’ammissione della propria inferiorità, umana e sociale, e persino un semplice “grazie” diventa per loro impossibile da pronunciare. Per scrollarsi di dosso il peso della gratitudine, sminuiscono la figura del benefattore.

Insomma, ci sono molti Cesare che trattano Bruto come un figlio, e molti Bruto che nel frattempo congiurano contro Cesare, sparlando alle sue spalle e lavorando alla sua rovina.

La gratitudine è sacra finché scambiata tra persone oneste, ma viene profanata ogni volta che si abusa di quel sentimento.

Alla gratitudine preferisco la riconoscenza, perché tocca con mano il bene che viene fatto e lo riconosce.

Meglio tanti “grazie” in meno e un po’ di riconoscenza in più.


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