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Franco Di Mare

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Incontriamo Franco Di Mare per la serie “Le parole che fanno casa” dell’inserto “Mimì” del “Quotidiano del Sud”.

Franco Di Mare è uno scrittore e uno dei giornalisti più amati della Rai. Eppure pochi conoscono la sua infanzia a Napoli, il nocciolo duro di un’identità profondamente segnata dal mare, che porta la sua presenza fino nel suo cognome.

Dov’è nato e cresciuto, Franco Di Mare?
«Nel posto più bello del mondo, in una sorta di piccolo paradiso per bambini e per sognatori. Sono nato e cresciuto a Mergellina, il porticciolo turistico di Napoli, l’antico porticciolo dei pescatori. Nella casa dove sono nato hanno vissuto il mio bisnonno, mio nonno e poi mi padre: tutti ostricari subacquei, che poi vendevano i frutti di mare che pescavano. Mio nonno è stato uno dei primi sommozzatori di Napoli. Pensi che fece più di 89 salvataggi in mare. Si chiamava Alfonso Di Mare e, quando morì, negli anni ‘60, il quotidiano “Roma” gli dedicò un’intera pagina. Quindi io sono nato con i piedi nell’acqua».

E come vive in una città senza mare, adesso?
«Come vivo? Male, ovviamente. Capita a chiunque sia nato in una città di mare e poi l’abbia lasciata. Dalla finestra di casa mia vedevo Capri, quando ero bambino. E sotto la mia finestra batteva il mare, e c’erano le barche che entravano direttamente nel palazzo. Accanto al mio palazzo c’era uno stabilimento balneare a cui avevo accesso gratuitamente. Mia madre mi faceva andare da solo anche quando avevo quattro anni, perché i bagnini mi conoscevano».

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Mai avuto paura del mare? Nemmeno da piccolo?
«Mai. Per me il mare è stato sempre un luogo da amare e rispettare. Mio nonno citava sempre quella poesia di Eduardo dove a un certo punto si dice che il mare non fa paura, perché “ ‘o mare sta facenno ‘o mare”. Il mare deve solo essere amato rispettato. Solo così non fa paura».

Lei le conosce bene le leggi del mare, mi pare di capire.
«Le regole del mare sono il rispetto e l’assistenza di chi naviga. Da piccolo io pescavo i ricci con mio nonno, che mi aveva insegnato ad andare sott’acqua. Quando passavamo in barca nei posti dove lui sapeva che c’erano i ricci, lui salutava sempre le barche che incrociavamo. In mare funziona così. Dare assistenza in mare non è una regola napoletana, ma internazionale. Anche al nemico si dà assistenza in mare».

Mi dice una parola o una frase indimenticabile della sua infanzia?
«Per me è “sommozza ccà”, che vuol dire “immergiti qua”. Era il luogo dove c’erano i ricci pregni. Io mi tuffavo e poi ne portavo uno a mio nonno. Se avevo pescato bene mi diceva “vabbuò guagliù”».

Parla molto di suo nonno Alfonso. E suo padre?
«Mio padre faceva l’ostricaro come mio nonno, ma aveva il doppio lavoro, perché lavorava anche come operaio nei monopoli del tabacco. Eravamo tre figli, poi diventammo quattro, e allora bisognava arrotondare. L’iniziazione al mare, però, la devo a mio nonno».

Come mai in Italia tanti scrittori come lei sono nati “con i piedi nell’acqua” e, nonostante questo, non abbiamo una grande letteratura italiana di mare?
«Forse non abbiamo mai avuto uno Stevenson, un Conrad o un Melville perché siamo un po’ marinai di sottocosta. Non siamo mai stati grandi marinai di oceano, ma di mari domestici. L’unico esempio di grande letteratura di mare è Verga, che ha saputo raccontare un mare infido e amico, che ti dà da vivere ma che ti toglie anche tutto. Noi abbiamo un mare di pesca da diporto. La nostra è una pesca di prossimità. È un mare di sardine, il nostro. Da noi non esistono i marosi. Pensi che abbiamo l’unica città del mondo che, pur essendo città di mare fino in fondo, volta le spalle al mare. Mi riferisco a Messina».

E in che modo questo ragazzo con “i piedi nell’acqua” a un certo punto scopre la parola scritta, la letteratura, il giornalismo?
«Mio padre era un autodidatta onnivoro e disordinato, leggeva di tutto. Tornava a casa e applicava il principio di Tom Sawyer. Mi riferisco al passaggio nel quale viene punito dalla zia a dipingere la staccionata. Tom Sawyer si mette a dipingere e un amico lo prende in giro, ma lui gli risponde: “Mia nonna non mi ha messo in punizione, io mi sto divertendo da morire” Allora l’amico gli dice: “Mi fai provare?” Tom Sawyer gli risponde: “E tu che mi dai?” E quello gli regala una fionda. Così Tom Sawyer si fa pagare dai suoi amici e si gode la giornata sdraiato sul prato. Mio padre faceva la stessa cosa. Quando vedevo che stava con i libri in mano lui li nascondeva di colpo, e mi diceva “guagliù, sono cose che non ti piacciono, sei troppo piccolo”. E invece quei libri li comprava per me. Aveva creato la curiosità dicendo una bugia. Proprio come Tom Sawyer».

Il nonno l’ha iniziata al mare, il padre alla parola.
«Mio padre mi fece leggere di tutto, dal “Milione” di Marco Polo a Hemingway, dal “Piccolo principe” alle favole italiane di Italo Calvino, che comprò a rate perché di soldi ne avevamo pochi. Papà leggeva tutto, dall’elenco del telefono alla Bibbia. Quando vedeva la parola scritta rimaneva come ipnotizzato. Quando da grande ho letto “Come un romanzo” di Daniel Pennac io ho capito che Pennac non si era inventato niente, perché papà era arrivato prima di lui a capire che il verbo leggere mal tollera l’imperativo: così come non puoi dire “sognami” o “amami”, così non puoi dire “leggimi”».

Non c’è più, suo padre?
«No, è morto circa quindici anni fa».

E con lui parlava anche dei suoi primi amori? Era un rapporto confidenziale il vostro?
«No, perché mio padre era un uomo schivo. Preferiva i libri e la parola scritta alla parola parlata. Era riservato, delegava ai libri il compito di dover spiegare le cose. Se c’era un sentimento che non riusciva a governare diceva “leggi questo”».

E a proposito di primi amori, come ricorda il primo amore della sua vita?
«Sì era alla fine degli anni ’70. Era una ragazza napoletana che aveva un anno più di me, e che era molto più colta di me, e questa cosa mi faceva arrabbiare moltissimo. Io ero all’ultimo anno di liceo e lei all’università, dove studiava filosofia. Era una comunista, una seguace della IV Internazionale. Facevamo discussioni interminabili su Lenin e Trotsky, e questa cosa dice qualcosa sull’impegno di noi ragazzi dell’epoca, su di noi comunisti immaginari. Avevamo la testa piena di idee e di fervore».

E come la ricorda la Napoli di quegli anni?
«Me la ricordo vitale, piena di cose, magmatica. Ricordo grandi speranze, ma anche enormi sofferenze e paure, e molto impegno, per esempio ricordo le battaglie per far sopravvivere l’Italsider di Bagnoli. A Napoli c’era una classe operaia importante, infatti ricordo che la più grande festa dell’Unità fu fatta proprio a Napoli nel 1976 con Berlinguer. Fu una cosa straordinaria. “L’Unità” scrisse che alla Mostra d’Oltremare c’erano un milione di persone. Forse esagerava, ma la marea umana di quella festa è indescrivibile».

E oggi che rapporto ha con Napoli?
«Un rapporto ambivalente. Non puoi pretendere la fedeltà da Napoli. È come la Carmen di Bizet. Come ti giri cambia, tradisce, divisa com’è tra lazzari, signori e intellettuali. A Napoli ci sono conflitti permanenti, luci e ombre, sotterranei, un continuo sopra e sotto. È la città della luce e delle ombre».

Lei è stato inviato di guerra, conosce il dolore e il male, eppure ha spesso attraversato tutto questo con distacco e con una sorta di cinismo di difesa. Da dove le viene questa forza?
«Chi ha avuto la fortuna di avere un’infanzia come la mia in una città così al limite, dalle forte emozioni, in realtà è segnato per sempre. Questo continuo filosofeggiare, questo rimandare, questo passare sull’immanente sono difetti e qualità di chi è nato in una città che ha vissuto tutto e non si aspetta più niente dal futuro. E questo non aspettarsi niente dal futuro, questo non immaginare mai un domani, è il grande difetto ma anche il grande pregio di chi ha avuto, come me, la fortuna di nascere a Napoli».


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