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Lirio Abbate

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“Non fare il passo più lungo della gamba”, è questo uno dei moniti che il papà di Lirio Abbate gli ha inculcato fin da bambino.

Un proverbio che sembra quasi cucito come un abito su misura perché Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, giornalista d’inchiesta e saggista, è un uomo che ha edificato la sua schiena dritta – la fama delle sue inchieste lo precede – sulla riflessione della notizia, veicolata poi con coscienza.
Tutto questo lo ha portato negli anni ad essere un punto di riferimento nel panorama giornalistico. La sua voce calma e pacata non nasconde un certo ardore quando parla del suo lavoro, edificato sulla serietà e sulla competenza, un mestiere che ha scelto per passione e per il diritto alla conoscenza ed alla verità dei fatti.

Da dove nasce questa passione di indagare il marcio?
«Nasce dal fatto che iniziando a fare il giornalista, comprendi di voler raccontare la verità con documenti alla mano. Inizi a voler mostrare per informare e lo fai non partendo per forza da uno spunto giudiziario o altro, ma semplicemente fai quello che un giornalista dovrebbe fare, trovare le notizie che abbiano un interesse sociale, pubblico, politico e raccontarle.»

Pippo Fava diceva “A che serve vivere se non c’è il coraggio di lottare”, riferendosi a un concetto etico di giornalismo. In una società come quella italiana, secondo Lei, il giornalismo è libero? E, se non lo è, cosa gli impedisce di esserlo?
«Il giornalismo in gran parte è libero. Diciamo che non gli viene dato abbastanza spazio per approfondire. Spesso molte redazioni non hanno il tempo, su alcune notizie, di impiegare i propri giornalisti per raccontare e scavare. È diventato un mestiere “friggi e mangia”, troppo veloce e spesso la velocità poi induce ad errori.»

Per me la libertà corrisponde alla dignità dell’uomo. E per Lei che cos’è la libertà?
«La libertà per me è poter raccontare quello che è notizia, quello che fa notizia, quello che socialmente e politicamente è rilevante e non sempre la notizia giornalistica corrisponde alla notizia di reato, anzi, spesso la notizia giornalistica va oltre la notizia di reato.»

E invece che cos’è la dignità?
«La dignità è guardarsi allo specchio dopo il lavoro che hai fatto e dirsi “sono fiero di continuare a fare il giornalista”».

Da poco è uscito, pubblicato da Solferino Editore, il Suo ultimo libro, scritto a quattro mani con il regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana, Il Rosso & Il Nero, dove raccontate, attraverso la voce dei due protagonisti Achille “il Nero” e Tito “il Rosso” uno spaccato della storia d’Italia che va dagli inizi degli anni Ottanta al Duemila. Cosa resta di quegli anni, oggi, nel tessuto sociale?
«Purtroppo viene fuori la storia di un Paese devastato da una politica che si è fatta corrompere da politici che non hanno più un ideale vero. Rosso e Nero, sinistra e destra, come c’era in passato. Ci sono alcune istituzioni deviate e molti purtroppo, avendo a disposizione delle notizie riservate, fanno carriera sul ricatto».

È mai stato ricattato?
«No, non sono mai stato ricattato, anche perché non ci sono i presupposti per tenere ancora degli scheletri nell’armadio. Anche quando hanno cercato di infangarmi con lo strumento del diritto e della giustizia, ho spazzato via ogni ombra che poteva cercare di sporcare la mia immagine.»

Nel libro il racconto si svolge lungo una linea temporale spezzata dai flashback, come se fosse un battere e levare musicale tra il mondo di dentro e il mondo di fuori. Dentro è il carcere, dove si muove il Nero, e fuori è la società, dove tesse le sue trame il Rosso. Qual è il messaggio che con Giordana avete voluto raccontare?
«Con Marco Tullio Giordana abbiamo voluto raccontare come si vive dentro, quali sono i problemi del carcere, raccontando anche storie, episodi che purtroppo, all’interno degli istituti di pena, sono realmente accaduti, per far vedere i problemi reali che vivono i detenuti e a quali complicazioni va incontro anche chi deve controllarli. Abbiamo voluto creare un raffronto con chi sta fuori per evidenziare che il carcere, a volte, così come è fatto, non porta sempre a una riabilitazione ma a una unione, come è successo con i due protagonisti del romanzo che sono diventati un’unica cosa. Il carcere deforma il DNA di una persona e lo trasforma per sempre. Questo nel libro lo raccontiamo e cerchiamo di far vedere come le persone entrano in un modo e ne escono in un altro. A volte, magari più formate, come accade a Tito – il Rosso –, uno dei protagonisti, che dentro il carcere conosce la letteratura, i libri e gli viene permesso anche di laurearsi. Ma quando esce diventa come Achille – il Nero – e si sporca le mani anche lui».

Il titolo del romanzo si rifà a Stendhal. Qual è il suo scrittore preferito?
Sono cresciuto leggendo Bufalino, Sciascia, scrittori che mi hanno aiutato a crescere. Mi aiutano ancora oggi nei momenti in cui ho qualche difficoltà. Rileggendoli mi fanno capire come il passato può aiutare a risolvere i problemi dell’oggi».

Tra la Prima e la Seconda Repubblica c’è stata una grande crepa causata dalla mancanza di ideologie. Oggi questo vuoto da che cosa è stato riempito?
«Non è ancora riempito. Il vuoto c’è, rimane l’aria, l’aria di persone che non hanno un ideale. Quando non c’è un ideale, è aria fritta che non forma nessuna sostanza e la sostanza non diventa di nessun colore. Oggi quel buco è pieno soltanto di aria fritta.»

Cosa bisognerebbe fare, allora, per far sì che quest’aria fritta diventi concretezza, soprattutto per permettere all’ideologia di occupare uno spazio reale, che non si limiti ad essere solo un vocabolo con il quale riempirsi la bocca?
«Penso che si sta facendo qualcosa e i segnali arrivano dai ragazzi. A mio avviso, gran parte del corpo docente, nelle scuole, sta formando delle ottime classi di adolescenti. La lettura, il conoscere, il sapere, stanno formando nuove generazioni. L’esempio di queste trasformazioni ci viene dato da due episodi che in quest’anno trascorso sono rimasti indelebili. Il primo è la storia dei tre ragazzi che sono e restano, purtroppo, ancora oggi stranieri per l’Italia. Quei tre ragazzi che misero in salvo i loro compagni di classe dentro uno scuola bus di San Donato Milanese quando ci fu quell’autista che cercò di sequestrarli per farli finire male. Loro si sono adoperati per cercare soccorso, chiamare aiuto, salvare tutti coloro che erano presenti all’interno dello scuola bus e metterli tutti in salvo, nessuno doveva rimanere indietro. L’altro esempio è di un quindicenne, si chiama Simone, che a Torre Maura, periferia di Roma, si è scontrato con un uomo molto più grande di lui dell’estrema destra che era lì per protestare in maniera strumentale contro alcune persone Rom a cui era stata assegnata una casa. Ne avevano diritto. Ecco, quel quindicenne, nel discorso che è diventato virale grazie alla diffusione in rete, ha messo in campo la sua maturità di persona che non vuole far rimanere indietro nessuno. Con le parole e la sua istruzione ha fatto comprendere a quell’uomo quanto stava sbagliando e quanto i suoi ideali erano indietro di decenni e quanto erano ancora primordiali le parole che utilizzava quell’uomo di estrema destra. Quel ragazzo ha vinto, ha vinto su tutto e lo si può vedere come una speranza per il Paese. Se ci sono ragazzi così, sono positivo nel pensare che qualcosa potrà cambiare, che gli ideali potranno ritornare».

Qual è una parola dimenticata?
«Stima.»

Una parola abusata?
«Dignità.»

Una parola da salvare?
«Amicizia.»

Che cos’è per Lei, Abbate, l’amicizia?
«Un grande dono. Una grande colla che si può soltanto chimicamente realizzare quando delle persone si riconoscono ed hanno quegli elementi chimici che possono mettere in pratica e saldare due parti o più parti che sembrano, apparentemente, slegate. L’amicizia è donarsi agli altri, è esserci nei momenti più bui o nei momenti negativi e nel bisogno. L’amicizia è sapersi offrire agli altri non per uno scopo.»

Se le dicessi la parola “amore” dove La rimanda?
«Mi rimanda a quello che ha bisogno adesso questo mondo. Più amore, più riconoscenza, soprattutto tra i popoli. Per creare insieme una vita migliore.»

C’è una parola o un proverbio che sentiva spesso quando era bambino?
«Non fare mai il passo più lungo della tua gamba.»

Un’espressione invece che Lei adopera spesso?
«Stare con i piedi per terra.»

È felice?
«Sono felice per quello che faccio».


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