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All’indomani delle nuove misure per fronteggiare la diffusione del coronavirus, un capo di partito ha chiesto al governo “qualche gesto simbolico: ad esempio, con tutti i crismi della sicurezza, riaprire le librerie perché bisogna nutrire anche l’anima”.

Se riuscissimo per un istante a ignorare l’emergenza in corso, quella proposta suonerebbe invitante e rivoluzionaria, un po’ come quando in Massachusetts nel 1912 le lavoratrici in sciopero urlarono “Vogliamo il pane, ma anche le rose”.

Ignorare l’emergenza in corso, però, è impossibile. Oggi vogliamo il pane, ma anche le mascherine, i tamponi e i posti di terapia intensiva a sufficienza: chi sta in mare aperto non ha urgenza che gli venga lanciato un simbolo, ha urgenza di un salvagente. Oggi si parla di bisogni immateriali, dopo che per decenni è stato costruito l’impero della materialità; si parla di librerie in un’aula di senato che si è più occupata di banche e slot machine; si pronuncia la parola “anima” in un’Italia fatta di cervelli fuggiti o sviliti e di culi incollati alle poltrone. Certa classe dirigente ha incarnato l’esempio di come la furbizia può raggirare l’intelligenza, la scostumatezza zittire l’educazione, l’impotenza dei prepotenti imporsi sul vero potere, incentivando falsi valori sociali che non danno alcun nutrimento. Esistono le torte con o senza la ciliegina sopra, ma a guardare l’Italia si ha l’impressione di una ciliegina senza torta sotto. Più che uno Stato, il nostro sembra uno stadio, dove i partiti si scontrano in un eterno derby.

“Di che partito è il giornale?” si sente chiedere chi, come me, su un giornale scrive. I giornali fanno informazione e l’informazione non ha partito, o almeno non dovrebbe.

Eppure la domanda è diventata di routine in qualsiasi ambito. “Di che partito è?” si chiede del primario di un ospedale, di un amministratore delegato, di chiunque ricopra un ruolo, come se il partito di appartenenza venisse prima del curriculum.

Questa è partitica, non politica, perché la vera politica si occupa del benessere della collettività. Della politica stiamo invocando il ritorno.

Mentre le persone, costrette in casa, ne approfittano per pulire a fondo, chissà se certa classe dirigente ha capito che la polvere non si può più nascondere sotto al tappeto. La realtà non è quella che si racconta: è quella che è.

Oggi si chiede alla gente un sacrificio, ma sacrificio è compiere qualcosa che abbia uno scopo sacro. Se gli scopi sono profani, non si sta chiedendo un sacrificio, si sta chiedendo di soffrire e basta.

“Una parola può salvare tutto” scrisse Pedro Salinas. E io gli credo. Ma quella parola non sarà una parola altisonante, una parola a effetto, una parola che strizza l’occhio, una parola che incita all’odio o cerca l’applauso. Una parola può salvare tutto, soltanto se è una parola vera.

Da una parola vera sì, si può risorgere.

Tutto il resto è dizionario.


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