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CHI SI trova al termine della propria esistenza è solito invocare “mamma”. Capita anche agli anziani, orfani da mezzo secolo, circondati da figli e da nipoti. L’ultimo nome pronunciato di fronte all’immensità della morte è il primo nome pronunciato da bambini di fronte all’immensità della vita.

La festa dedicata alle madri suona commerciale, tra filastrocche imparate all’asilo e cuori scarabocchiati da appendere al frigo. Da tempo è considerata superflua e divisiva: c’è chi vorrebbe avere figli, non può e ne soffre; c’è chi, invece, non li vuole affatto e non intende essere giudicata snaturata o socialmente incompleta.

Maternità, però, non coincide con genitorialità: si può generare senza mai essere madri; si può essere madri senza mai generare. Genitore è chi dà alla luce un figlio; madre è chi gli insegna a illuminare il buio. Se tutti ci impegnassimo a essere madri e padri, sarebbe una rivoluzione. Educare è il più grande potere politico, il più difficile, il più pericoloso. Anche quando i governi sono marci e correggere la corruzione è un’impresa impossibile, resta sempre la possibilità di trasmettere valori diversi da quelli imperanti e contribuire così a creare persone migliori.

Al di là della genitorialità, oggi vanno celebrate tutte le donne che sono capaci di accogliere e raccogliere, proteggere il futuro dalla distruzione. Wisława Szymborska nella poesia “Vietnam” mostra come un massacro può portare via a una madre l’identità e ogni certezza, tranne una: sa ancora riconoscere la vita tra le macerie. Che sia stata lei a partorirli o no, quelli sono i suoi figli.

“Donna, come ti chiami? – Non lo so. Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so. Perché ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so. Da quando ti nascondi qui? – Non lo so. Perché mi hai morso la mano? – Non lo so. Sai che non ti faremo del male? – Non lo so. Da che parte stai? – Non lo so. Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so. Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so. Questi sono i tuoi figli? – Sì.”


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