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“Befana, mia befana, tu scendi dalla tana; la tana è piccoletta, porta giù qualche cosetta”.

Fila ancora la filastrocca di quando, da bambini, cercavamo d’intuire, nel silenzio del buio, il fruscio di una sottana. Restavamo in dormiveglia, tra la magia della nottata e l’incanto del risveglio.

“Befana, mia befana”, chi t’inventò così brutta non può averlo fatto a caso: sei la prova manifesta che le cose brutte non ci devono spaventare; tra i tizzi dei carboni ci sono doni e certe apparenti sfortune ci rendono migliori.
Chi ti vestì da barbona sapeva che, seppur vestiti di stracci, possiamo avere la generosità dei veri signori, mentre c’è una voragine di miseria dietro certi colletti bianchi.

Vecchia – quanti secoli hai? – dimostri che l’esperienza non deve indurire i cuori: certi uomini già da piccoli fanno fatica a essere buoni.

“Befana, mia befana”, è fuori moda la tua sottana, è fuori moda il tuo fazzoletto, ma le mode passano e tu invece resti.

I bambini di oggi si chiedono di che nazionalità sei, da dove vieni, perché entri in casa degli sconosciuti. Noi non ce lo chiedevamo. Intuivamo, attraverso la leggenda, il valore della metafora: chi non è disposto a ricevere, non riceve nemmeno doni.

Noi non avevamo paura del tuo arrivo, avevamo paura soltanto di ritrovarci di fronte al mistero, di vedere cosa c’era al di là del velo, di non essere creduti o, peggio ancora, di essere presi in giro se avessimo detto al mondo intero che ti avevamo visto con i nostri occhi ed era tutto vero.

“Befana, mia personalissima befana”, l’età dell’attesa è passata. Oggi so che il fruscio della sottana non era altro che la carezza di mia madre.

La calza, però, la appendo lo stesso e recito la formula. Sulla tavola ti lascio le noci sgusciate e ti verso un bicchiere di latte.

Anche se a mani vuote, continua a presentarti ogni anno, comunque.

Sarà il più bel regalo, mentre dormo, sentire il tuo fruscio sul viso.

Ti aspetto sempre.


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