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“Il caciocavallo di bronzo”, si chiama così il suo primo romanzo. Quel titolo che gioca (ma non troppo) sul “non-sense” racconta molto del suo autore: Peppe Voltarelli, cantautore calabrese con incursioni nel teatro e nel cinema, per quindici anni voce e fondatore de “Il Parto delle Nuvole Pesanti”. Poi, dal 2006, la scelta di andare da solo.

In quel romanzo, edito nel 2014 da Stampa Alternativa, “scritto, cantato e suonato” da Peppe, si racconta senza punteggiatura di un paese immaginario in Calabria dove si vuole costruire un monumento in bronzo al Caciocavallo. Bronzo come le medaglie olimpioniche del terzo posto e come se l’oro per quel paese immaginario restasse un obiettivo-chimera.

Il romanzo si snoda lungo 19 micro-racconti autobiografici (solo l’ultimo capitolo è di fantasia), in un ordine temporale che parte dagli anni in cui il protagonista frequentava le scuole elementari… «Ricorda un pochino Gli anni perduti di Vitaliano Brancati in cui si parla di una torre da costruire in un paese», spiega il cantante-scrittore, facendo affiorare il ricordo di Natàca (anagramma del nome greco di Catania), il paese del romanzo di Brancati dove non accade mai nulla per dieci anni salvo voler costruire una torre panoramica.

Di strada Voltarelli ne ha fatta tanta. Nato a Cosenza, è cresciuto a Mirto Crosia prima di trasferirsi da studente al Dams di Bologna.
Nella sua valigia c’è sempre l’anima e la voce della Calabria.
Tra qualche giorno il “trova(t)tore”, così si definisce, sarà in Madagascar per tre spettacoli, ospite dell’Istituto Francese di Antananarivo e del Consolato Onorario d’Italia. Il primo concerto è previsto il 29 novembre. Alla vigilia del suo viaggio, gli abbiamo chiesto di raccontarsi a “Mimì”.

Voltarelli lei si definisce “Trova(t)tore”, perché?
«Il processo creativo di un cantautore si basa sulla ricerca e sullo scavo attraverso lo studio,  i viaggi, le canzoni, gli incontri. Quando la ricerca va a buon fine è possibile che nascano canzoni interessanti e utili». 

Se non avesse fatto il  cantautore e l’attore, cosa le sarebbe piaciuto fare? 
«Mi piacerebbe fare il cronista alla radio».

Quest’anno ha fatto parte del cast della 43esima edizione del Premio Tenco. Di targhe Tenco Lei ne ha vinte due: nel 2010 con Ultima notte a Mala Strana (Otrlive-Universal) e nel 2016 con Voltarelli canta Profazio (Squilibri Editore)… Ma chi è Luigi Tenco per lei e quale sua canzone ama particolarmente?
«Conoscevo le sue canzoni più famose perché le ascoltavano i miei genitori, poi nel 1998 fui invitato per la prima volta al Premio Tenco: quella partecipazione ha cambiato la mia percezione della musica. Nel 2004 cantai Ognuno è libero. Fu una versione molto curiosa. Nel 2016 ho avuto il grande onore di cantare Lontano lontano che è la sigla del Tenco: voce e chitarra all’Ariston, un’esperienza incredibile. Tenco è voce profonda, grande sensibilità e raffinatezza, ma anche denuncia e coraggio. È stato un precursore». 

Proprio al Tenco quest’anno Lei ha parlato de Le parole delle canzoni. Quali sono le Sue parole irrinunciabili e perché? Ne scelga tre…
«“Lontano”, “libero”, e “tenerezza”: parole necessarie per fuggire,  senza scappare». 

Sulle piattaforme digitali è possibile ascoltare una Sua personale interpretazione di Dio come ti amo di Domenico Modugno. La versione remixata, pubblicata da “Adesso”, l’etichetta discografica di New York che segue da tempo i Suoi lavori negli Stati Uniti, è opera di due dei principali esponenti del movimento Electro Swing: i produttori parigini Bart & Baker. Perché ha scelto Modugno? Non Le è sembrata un’operazione rischiosa intervenire così su un classico della canzone italiana? Il rischio valeva il risultato?
«Quando canti canzoni che hanno scritto altri puoi farlo in due modi: imitandoli oppure facendo finta che è un pezzo tuo. A me piace fare nella seconda maniera. Conosco molto bene Domenico Modugno. Ho in repertorio da quasi vent’anni un recital a lui dedicato dal titolo Voleva fare l’artista. La scelta di interpretare Dio come ti amo in chiave electro-swing è nata in modo spontaneo rispettando lo spirito guascone e irriverente di Domenico Modugno, senza imitarlo».  

La regione protagonista della Settimana italiana di Montréal di quest’anno era la Calabria e Lei, tra l’altro, quest’estate ha tenuto un concerto nella Petit Italie, il cuore pulsante dell’Italianità del Quebec. Come si è sentito Voltarelli tra gli italo-canadesi? E cosa Le è rimasto di questa esperienza?
«Il Canada è un Paese che mi vuole bene. A Toronto e a Montreal ho carissimi amici con cui collaboro da oltre dieci anni. A Calgary, invece, sono stato al Festival del Cinema: gli italiani d’America sono la mia famiglia, le loro storie, le loro facce sono sempre con me perché sono la poesia del viaggio, del lavoro, della nostalgia, della tenacia. Cantare a Montreal per la Settimana italiana è stato forte: palco enorme alla Piccola Italia, un sacco di bandiere, di gonfaloni. Pezzi di Molise, di Calabria, di Trentino, la Sicilia e l’Abruzzo e “tu” che cerchi di riunire questo incredibile mosaico di differenze semplicemente cantando con gioiosa responsabilità».

Il prossimo progetto discografico è previsto a primavera 2020. Come saranno le Sue nuove canzoni? Ci può anticipare qualcosa?
«Saranno svestite».

Facendo un salto indietro nel tempo, Lei ha scritto con Giuseppe Gagliardi la sceneggiatura di La vera leggenda di Tony Vilar  . Presentato fra gli Eventi speciali della Festa del Cinema di Roma nel 2006, il road-movie racconta la storia dell’emigrante calabrese Antonio Ragusa, partito nel 1952 per l’Argentina. Con il nome di Tony Vilar, Antonio Ragusa diventò tra i più famosi cantanti dell’America Latina anche  grazie al brano Cuando calienta el sol. Improvvisamente, però, Tony Vilar sparì, fino a quando….
«Fino a quando siamo arrivati a Mortis Park Ave e gli abbiamo chiesto di raccontarci la verità  allora lui da Antonio Ragusa è tornato Tony Vilar diventando leggendario». 

Lei canta spesso in dialetto calabrese. La potenza del suono dialettale cosa aggiunge a una interpretazione?
«Il dialetto è come la mamma: ha sempre ragione». 

A cosa non rinuncerebbe mai?
«Al mio cappotto rosso di panno casentino: caldo ed elegante». 

Con lo spettacolo Viaggio nei porti del mondo ha dato voce, tra gli altri, a  Jacques Brel e a Sergio Endrigo suonando chitarra e fisarmonica …Voltarelli, ma qual è il porto della sua vita? 
«A Mirto non c’è mai stato il porto, ma a Capo Trionto (località Marinetta a Corigliano Rossano, in provincia di Cosenza, ndr) c’è un faro: quando sei lontano, anche se spento, puoi sempre vedere la sua luce. Ecco, quello è il mio porto». 


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