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Marinella Meligeni mostra le cicatrici e i segni dei maltrattamenti

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“QUESTA” di Marinella è la storia vera”. Pochi giorni fa, in piena primavera, non è scivolata nel fiume, ma ne è riemersa. Il 28 marzo scorso, con un post corredato da sue foto fin troppo eloquenti, Marinella, giovane donna di Cosenza trapiantata a Bologna, racconta la sua storia. Nelle immagini che la ritraggono è circondata dal verde degli alberi e affiancata dallo stelo di un fiore, alto e longilineo. Ha lunghissimi capelli scuri. A stridere contro la pace di quei colori irrompono i segni che porta sulle braccia: morsi, graffi, botte. Le cicatrici risalgono a cinque anni fa, quando Marinella studiava all’università e aveva una relazione con Gabriele, durata tre anni.

Marinella ci mette poco ad accettare la mia richiesta di amicizia su Facebook. Vorrei parlarle, ma a volte il filtro del computer è tutt’altro che un punto a favore, è una debolezza. Come si fa ad avvicinarsi a tutte quelle ferite senza riaprirle? La sua storia è come un venerdì santo, ma più lungo. Me ne accorgo quando le dico «Scusa per il disturbo» e lei mi risponde «Grazie per il disturbo»: forse aspettava da tempo di essere scomodata per raccontare.

Nella prima estate con Gabriele, Marinella sminuiva quelle sue reazioni esplosive, eccessive, per qualunque piccola cosa. Come un impegno dimenticato, che le era costato una serie di schiaffi così forti che il suo sangue era schizzato sulla parete opposta. In un climax di violenza gli schiaffi diventano morsi e davanti agli occhi di Marinella esplodono dei “lampi di luce blu”, che diventano la lingua madre del dolore.

“Ma che male ha fatto, costui?”, chiese Pilato, “non ho trovato nulla in lui che meriti la morte.”

Da quel cuscino non passava l’aria. Ogni volta che Gabriele glielo premeva sulla faccia poteva essere l’ultima. I lividi di Marinella arrivavano anche giù nella gola, dove nessuno avrebbe potuto vederli.

Dopo averlo fatto flagellare, lo consegnò perché fosse crocifisso.

La minaccia non poteva essere più chiara di così, il giorno che Gabriele aveva detto: «Adesso ti porto nel campo e ti ammazzo», mentre la moto su cui sfrecciavano viaggiava ad altissima velocità. La scelta tra morire di certo per mano sua e rischiare di morire buttandosi giù dalla moto era altrettanto limpida e a Marinella non era servito troppo tempo per decidere: si buttò giù dalla moto.

A Marinella non piace essere ripresa, non le va di comparire nei video. Gabriele la inquadrava spesso mentre piangeva, perché a suo dire con quei video avrebbe dimostrato a tutti che lei era pazza, che si inventava tutto. Le ferite e i segni sul corpo di Marinella erano pronunciati, impossibile che passassero inosservati. Eppure c’era chi continuava a far finta di nulla, passava accanto a quella mappa di sofferenze con l’impalpabilità di un fantasma.

Quando Marinella ha denunciato Gabriele, gli amici non volevano essere coinvolti. La invitavano a chiudere la relazione senza troppo teatro e non intendevano darle aiuto.

In verità, in verità ti dico, Pietro: prima che il gallo canti, mi avrai già rinnegato tre volte.

Marinella provava a scappare, ma Gabriele la raggiungeva, la riportava in casa. «Non ti faccio niente», ma le vertebre rotte subito dopo lo smentivano. Nell’appartamento accanto al loro abitava un carabiniere: attraverso le pareti era impossibile che lui non sentisse, eppure non voleva ascoltare. Intanto, i server della Questura non registravano la condanna a carico di Gabriele relativa alla denuncia di Marinella, perché probabilmente qualcuno aveva “dimenticato di caricarla”.

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Gabriele è stato condannato a un anno e due mesi di reclusione per violenza domestica. Non ha mai scontato la pena perché era il suo primo reato. Questo, però, non è bastato a disincentivare Gabriele, che dopo Marinella ha ripetuto gli abusi e le violenze su un’altra ragazza. Anche lei lo ha denunciato, lo scorso 4 dicembre.

Marinella mi dice «chiedimi pure quello che ti serve», ma forse devo capire cosa potrebbe servire a chi è nella sua stessa situazione, a chi le cause in Tribunale le perde, a chi deve passare tutta la vita a dimostrare di essere stata torturata dentro e fuori. «Come si fa ad accorgersi che si sta consumando una prassi di violenza, anche se non ci sono segni evidenti addosso a una donna?», le chiedo, «quali sono i segnali che all’esterno bisognerebbe cogliere e che invece non si colgono mai?». «Penso che i segnali di una donna che subisce violenza siano molti», mi dice, «ma quando non ti senti al sicuro è quasi impossibile prendere una decisione. La gente è abituata a certi meccanismi e, come si dice, “tra moglie e marito non mettere il dito”.

Un aiuto concreto può venire da un centro antiviolenza, che consiglio a tutte le donne in difficoltà, che offrono anche posti sicuri in cui stare, un sostegno psicologico che ti faccia sentire non colpevole. Lì si può maturare la sicurezza per poter prendere decisioni positive. È come stare in trincea e sapere di poter morire. L’aiuto serve a spostare quel coraggio nella scelta giusta, che non è la sottomissione, ma la liberazione». «Come si fa a trasformare la rabbia e i traumi in qualcosa di costruttivo?». Immagino che mi risponda sollevando le spalle, con una consapevolezza attaccata addosso come un tatuaggio. «La rabbia resta», dice, «specie quando non ottieni giustizia. Ritorna ancora più forte quando sai che questa persona lo ha rifatto su un’altra donna. Il dolore non va via, questo è chiaro, è proprio la paura che alimenta il coraggio. Ma ora, sentendomi al sicuro e lontana da quella persona, riesco a canalizzare il coraggio nelle cose positive, anche in quella semplice – ma anche difficile – di testimoniare pubblicamente la mia storia. Ho rischiato più volte di morire e non lo accetto più. La legge non ha ancora fatto il suo corso, ma questo alimenta ancora di più la voglia di aiutare il prossimo.»

Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Lui non è qui, è risorto.

A volte, Cristo è donna. E come quelle sul corpo di Gesù nel giorno della Resurrezione, che si fanno traccia di un martirio mai dimenticato, così le stimmate sul corpo di Marinella diventano il pentagramma di una melodia di rinascita. Me lo spiega bene quando le chiedo: «Di che cosa sa la tua Resurrezione? A quali odori, sapori e colori è legata?». «Chiudo gli occhi e assaporo l’acqua», mi dice, «che di per sé non ha nessun sapore, ma è vitale, dissetante, come la libertà. Sento odore del fumo che continua a salire da un fuoco alimentato costantemente dai pensieri. Vedo rosso, perché continuerò ad amare non dimenticando mai il passato. È importante, per me, ricordare chi ero e chi sono diventata, avere memoria del passato riesce a farmi comprendere il motivo che mi ha portata ad essere la donna che sono oggi. La mia Resurrezione è non dimenticare il passato, per avere un futuro migliore».

Liberaci dal male, Amen.


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