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La guerra ci inseguiva sin dentro i banchi di scuola, anche se erano passati alcuni anni dalla fine del conflitto. Nell’androne delle elementari compariva un grande cartellone dove erano disegnati oggetti in apparenza attraenti come bambole e penne: Non raccoglieteli”, intimava una scritta a caratteri cubitali, “Potrebbero esplodere”. Erano delle trappole esplosive lanciate su Milano dagli aerei americani e inglesi che allora attuavano anche in questo modo una propaganda per deprimere il morale della popolazione italiana ancora fedele al fascismo. Anni dopo il conflitto questi oggetti si trovavano nei giardini e nei prati dove giocavamo e continuavano a uccidere o a ferire, come le bombe inesplose interrate durante la ricostruzione.
 
I segni della guerra erano ovunque, persino nel centro della città, dove si vedevano mura squarciate dai proiettili e voragini lasciate dalle bombe. Nelle strade si incontravano ancora i feriti e i mutilati, chi senza un gamba, chi senza un occhio. La guerra ti accompagnava anche a tavola: “Non lasciare niente nel piatto, allora non c’era nulla da mettere sotto i denti” e giù epici racconti su una fame così persistente, imbattibile e pervasiva che ancora oggi non riesco a buttare il pane del giorno prima.
 
A ogni angolo di Milano c’era una targa di marmo adornata da una corona d’alloro che ricordava i partigiani fucilati sul posto dai tedeschi o dalle milizie fasciste. Ero un ragazzetto ma mi colpiva la loro età: 18-20 anni. Mi veniva da pensare se di lì a poco sarei mai stato capace di mostrare tanto coraggio da sacrificare la vita per la libertà. Pur avendo trascorso 35 anni nelle guerre tra Medio Oriente, Africa, Balcani e Asia, non ho mai avuto da me stesso una risposta certa. E un po’ me ne vergogno.
 
Mi accorgo che la risposta, in realtà, l’avevo già in tasca. Quando da bambino incontrai il comandante “Ciro”, Carlo Barbieri, liberatore di Pavia, un nostro parente; quando, un poco più grande, ebbi lezioni di giornalismo da Paolo Murialdi, partigiano anche lui nell’Oltrepò, da Giorgio Bocca, da Italo Pietra. Quasi tutti loro avevano combattuto insieme e quasi tutti avevano fatto i giornalisti. Forse giornalismo voleva dire libertà.
 
In quel gruppo c’era anche Luchino dal Verme, nome di battaglia “Maino” che è morto a 103 anni nel 2017. Fu comandante della divisione partigiana Garibaldi Antonio Gramsci e diceva: “Non ho mai saputo quanti fossero comunisti e quanti no, ma so quanti morirono per tutti noi, per la libertà di ciascuno di noi”. Senza retorica, in modo semplice e genuino, ci raccontava come e perché siamo arrivati fin qua. Senso del dovere, coscienza personale, tradimento, speranza: i sentimenti che ci scuotono ancora oggi.
 
Ci ha lasciato questa testimonianza che va ben oltre il ricordo del 25 aprile e della liberazione: “Tutte le volte che uomini e donne si stringono intorno a qualche cosa, che sia un altare, che sia una bandiera, che sia un discorso, che sia una mensa, un battesimo, un funerale è sempre un momento estremamente importante. Prima di tutto perché l’uomo esce dal suo interesse personale, esce dal suo rischio di vita e non è più un individuo, è un NOI. Quando gli uomini diventano un NOI sono una forza enorme, dobbiamo ritrovare la capacita di essere un NOI”. Bella lezione per tutti, per giovani e vecchi, dal Sud al Nord.
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