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La strana alleanza Pd-Fi sorta in Sicilia – adesso in rodaggio a Gela nel secondo turno elettorale – rallegra le speranze del mainstream.

Mettere insieme il berlusconismo della recente stagione “rispettabile” con il ritorno al centralismo dirigista post-comunista di Nicola Zingaretti non è però il “compromesso storico” di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Pd e Fi non sono certamente le due chiese della società italiana, come un tempo la Dc e il Pci.

I comunisti di ieri hanno già messo a frutto l’innesto nel tronco della Balena Bianca e quel che Gianfranco Miccichè sta tentando, con tanto di arrembaggi di solidarietà con le navi Ong in dispetto a Salvini, è più un istinto – un bovarismo – che una strategia: un rintanarsi negli spazi residuali. In Forza Pd, dunque – ormai questo è il partito – s’invera la fusione di due ditte sposate dall’urgenza di sopravvivere. Carlo Calenda, tra i democratici – ben oltre il dato pittoresco di Trinacria – si spinge ancora più avanti immaginando tra gli interlocutori perfino il leghista Luca Zaia, il governatore veneto, e si capisce che il bollore nella pentola del sistema ha una sola broda: la conservazione dello status quo.

All’origine di questo esperimento, infatti, c’è il trauma del 4 marzo 2018 quando alle elezioni politiche, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, l’elettorato meridionale non vota compatto – come sempre nel passato – i “partiti sistema”. Nel finale di partita, invece, se mai ci si arriverà, ci sarà la naturale conclusione di una comune rovina: quella della sinistra che porta in dote quel che resta dei poteri – magistratura, banche, relazioni internazionali – e quella della destra che accasa i propri stanchi gerarchi presso il fonte battesimale della presentabilità sociale. Appunto, l’alleanza tra i Bel Amì e le Madame Bovary.


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