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Pazienti in ospedale

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Nel nostro Paese sempre più spesso si vogliono fare spese pubbliche alcune molto condivisibili, altre assai meno e non si fanno perché «non ci sono i soldi». Alla rinuncia si arriva sempre tra mille problematiche, a volte in modo traumatico che non risparmia l’Europa e le sue regole.

Ora, soprattutto in momenti di difficoltà è pressoché impossibile fare nuove spese attraverso l’adduzione alla finanza pubblica di nuove risorse versate dai cittadini. Il più delle volte le necessarie risorse vanno ottenute attraverso una politica di revisione della spesa in essere operando tagli e ridimensionamenti.

Come è noto, per il funzionamento dello stato in tutte le sue articolazioni in Italia si spendono tra gli 850 e 900 miliardi di euro all’anno. È lecito domandarsi: c’è qualcuno che mette il naso, con una certa sistematicità, in questa gigantesca montagna di spese? Chissà quante nicchie e nicchiette. si sono formate in circa duecento anni dall’unità d’Italia? Per carità, nel nostro paese non mancano i controlli. Ce ne sono in abbondanza, ma riguardano per lo più l’aspetto formale non il merito della spesa. È vero che, per la sua opinabilità il controllo di merito è difficile, ma bisogna pur farlo con gli opportuni metodi pena l’inefficienza e la cattiva utilizzazione delle risorse.

Nel nostro Paese urge un sistema che contrasti quella particolare forma di principio del costo storico che si è venuta affermando negli anni, per cui quando una spesa è entrata in bilancio difficilmente ne esce. E invece occorre controllare che l’utilità della spesa perduri, ovvero che le cose che essa è destinata a finanziare siano ancora necessarie e non possano essere ottenute a costi più bassi.

Bisogna continuamente controllare e verificare. E ciò, si badi bene, non perché si dubiti dell’onestà di chi a suo tempo introdusse la spesa; ma per la semplice ragione che nel frattempo le cose possano essere cambiate. Insomma una spesa pubblica può, naturalmente, essere finanziata con risorse di nuova adduzione al bilancio statale ma anche con tagli «ragionati» alle spese precedenti che appaiono non più necessarie o non più necessarie in quella misura. Qui sta il problema e dobbiamo saperlo affrontare fino a farne un metodo di gestione e di decisione della spesa pubblica.

Non azzardo previsioni ma sono convinto che un diffuso e buon sistema di controllo di gestione, possa liberare molte risorse utilizzabili per far fronte a nuove necessità. Quando ci accorgiamo che una cosa è malfatta o addirittura sbagliata dobbiamo avere il coraggio di cambiarla, dopo averne attentamente soppesato vantaggi e svantaggi e dopo aver opportunamente «convinto» coloro che fin qui hanno beneficiato della spesa. In questa materia, e non solo in questa materia, il riformismo deve essere morbido. Non illudiamoci di ottenere risultati duraturi con la forza, la quale, alla lunga, semina odio e rancore. Un vistoso esempio di errori commessi sono, secondo me, le Regioni. Esse hanno un costo non trascurabile, che senza alcun danno, potrebbe essere eliminato migliorando, in molti casi, la qualità dei servizi. Valga per tutti l’esempio della sanità.

Il problema della sanità pubblica, con le sue molte inefficienze e le sue tante ingiustizie, è sotto gli occhi di tutti e non sono di certo alcune graduatorie internazionali che ci fanno cambiare opinione. In Italia il servizio sanitario è molto diseguale da Regione a Regione. Occorre unificarlo verso l’alto. Sicché o si sopprimono le Regioni o si toglie loro la competenza sanitaria. Il servizio va unificato sulla base della migliore pratica. E qui dobbiamo avere motivi di gratitudine per alcune regioni soprattutto del nord perché hanno messo a punto le migliori pratiche alle quali il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe largamente attingere. E dico questo senza alcuna ironia, perché è la pura verità.


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