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Giuseppe Conte tiene a farci sapere che non vuole essere un nuovo Cincinnato. Ci informa pure che questo suo voler rimanere sulla scena non significa che intenda formare un suo partito, perché ci sono molti modi di servire in politica che vanno oltre la partecipazione alle competizioni elettorali (perché questo significa in ultima istanza farsi un proprio partito). L’affermazione merita qualche considerazione.

Prendiamola alla lontana. Un tempo gli studiosi di politica distinguevano fra il partito all’europea e quello all’americana. Nel primo caso si trattava di organizzazioni che formavano al proprio interno dei leader che poi lanciavano sul mercato elettorale e infine in quello della grandi cariche di governo. Per lungo tempo le figure chiave della politica in Italia, ma anche in Francia, Germania, Gran Bretagna, erano personaggi rilevanti dei partiti di quei paesi. Senza andare troppo indietro, lo erano D’Alema e Veltroni, Blair e la Thatcher, Schmidt e Kohl, Mitterand e Chirac. Negli Stati Uniti invece i partiti non erano comunità stabili di militanti al cui interno si formavano i leader: Reagan, Bush, Clinton, Obama non erano, come si direbbe da noi, “dirigenti di partito”. In quel contesto i partiti erano “macchine” che per affermare il loro successo elettorale reclutavano figure più o meno eminenti nella società civile, anche se arrivando al livello delle elezioni presidenziali erano necessari curricula ai vertici di istituzioni politiche, ma non di partito. Nessuno sa chi sia il segretario o il presidente dei Democratici o dei Repubblicani.

In Italia, colla crisi dei partiti si è tentato di organizzare qualcosa di simile. Il primo ad avere successo in quel campo fu Berlusconi, che si vantò di essere un non-politico e di contornarsi di personaggi presi dalla società civile (anche se buona parte furono invece transfughi dei vecchi partiti travolti da Tangentopoli). Però la prima cosa che fece l’allora Cavaliere di Arcore fu quella di farsi un partito al cui vertice collocò se stesso. Lo stesso, pur su scala molto minore, accadde con Antonio Di Pietro. Romano Prodi fu il primo vero esempio di leader di governo chiamato a quel ruolo da partiti in cui in sostanza non aveva mai militato. Pur con qualche ambiguità, contornata di Margherite e Asinelli, il professore emiliano resistette all’idea di farsi veramente un proprio partito, ma si può ben dire che quella fu una delle cause della sua debolezza come leader politico.

Dopo quell’esperienza la novità fu riproposta con Mario Monti. Qui il caso è interessante, perché l’ex commissario europeo, non fu scelto dai partiti, ma imposto dal presidente Napolitano, che, per blindarlo rispetto a questa debolezza, lo nominò previamente senatore a vita. Tuttavia qui l’esperienza di cui stiamo trattando si ripropose capovolta. Dopo essere divenuto presidente del Consiglio su chiamata dall’esterno del normale circuito parlamentare, Monti non resistette all’idea che per rimanere attivo in politica al massimo livello gli fosse necessario farsi un proprio partito. Fu l’avventura, assai deludente, di “Scelta Civica”, che Monti si affrettò ad abbandonare al suo destino facendola fallire, senza che peraltro questo gli facesse guadagnare più che una posizione da vecchio notabile.
E’ questo pregresso che ha davanti a sé Conte? Sì, ma con la consapevolezza di una notevole novità: un panorama in cui la crisi dei partiti è andata tanto avanti da non vederne praticamente più in campo di capaci di esprimere leadership di governo. Da questo punto di vista il primo esecutivo da lui presieduto è stato emblematico. Era con due vice che sulla carta dovevano avere un peso politico ben maggiore del suo, ma che invece hanno entrambi clamorosamente fallito come ministri. Uno (Salvini) come capopopolo era anche molto abile, ma come titolare de Viminale e come coordinatore dell’attività di governo è stato un fallimento. L’altro (Di Maio) non si è rivelato neppure capace di gestire una cospicua occasionale fortuna elettorale, mentre sull’altro versante inanellava pasticci.
Così Conte si è trovato ad essere il successore di sé stesso, persino nell’incredibile contesto di un radicale cambio di direzione politica. E di nuovo ha avuto successo per mancanza di alternative, fino al punto che chi lo aveva accettato un po’ per costrizione (Zingaretti) lo ha elevato a punto di coagulo dei progressisti. Oggi non c’è in campo una figura che possa competere con lui in questa anomala posizione di sperimentato uomo di governo “super partes” (che è cosa diversa dal “tecnico”) il quale possa offrirsi come strumento di soluzione del problema di mancanza di leadership nei partiti.

In un sistema che sembra destinato ad essere sempre più legato a governi di larghe coalizioni, diventa difficile immaginare che a guidarle sia un esponente di una delle loro componenti nessuna delle quali è in grado di prevalere veramente. L’unico in questa posizione potrebbe essere Salvini nel centrodestra, contro cui peraltro peseranno a lungo le riserve per la sua mancanza di adeguatezza per un responsabile ruolo di governo. Non è pertanto un caso che contro quel bersaglio Conte spari a palle incatenate.
Nel centrosinistra non ha rivali. Quelli che potrebbero davvero fargli ombra, tipo un Renzi capace di ridimensionarsi un poco, vengono neutralizzati dalla indisponibilità dei partner a far loro spazio. La crisi irreversibile dei Cinque Stelle come partito delle novità amplierà gli spazi per la domanda di “papi stranieri” per usare una vecchia formula che a suo tempo inventò D’Alema per Prodi (e di cui probabilmente si pentì presto).
Nel momento in cui si parla sotto traccia, ma con qualche evidenza, dell’ipotesi di un nuovo governo per uscire dall’impasse attuale perché non far presente a tutti che come “papa straniero” Giuseppe Conte rimane sul mercato?


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