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Intrappolati nella politica della caccia agli untori? Quelli che hanno fatto scuole almeno decenti ricorderanno la rievocazione che il Manzoni ne I Promessi Sposi fa della peste di Milano (1629-30): scoppiata per il sommarsi di carestie e invasione dei lanzichenecchi in un quadro di pessime condizioni igenico-sanitarie fu un evento tragico. Ricorda il Manzoni come si era diffusa la bufala che ad appiccarla fossero degli “untori” che la diffondevano spargendo sostanze velenose su persone e cose. La bufala fu naturalmente creduta e cominciò il triste rito del “dagli all’untore!” che ovviamente colpiva persone del tutto estranee alle dinamiche dell’epidemia.

Bene, temiamo che qualcosa di simile stia invadendo la comunicazione politica italiana (chiamarla “cultura” ci sembra del tutto improprio). In presenza di una indubbia crisi sociale ed economica ci si sforza di denunciare presunti “untori” che diffondono la malattia che fa finire quella che ci appare (e per certi versi è stata) l’età del grande benessere.

Si va dalle tesi più bislacche (tipo le scie chimiche) all’individuazione di colpevoli da ascrivere a categorie più tradizionali fra i capri espiatori: da chi dall’esterno approda nelle nostre società con ovvi problemi di integrazione (la cosiddetta invasione dei migranti fino alla folle tesi della sostituzione etnica), al ritorno del mito del capitalismo rapace che uccide pur di guadagnare, alla costruzione dell’orco burocratico di Bruxelles, e davvero chi più ne ha più ne metta.

Ciò che colpisce non è l’esistenza di questi fenomeni, che sono purtroppo ricorrenti nella storia, e neppure la loro rapida diffusione, perché sono le famose “notizie un po’ originali”, per riprendere una frase di Fabrizio De André in tutt’altro contesto, che “volano veloci di bocca in bocca”: solo che oggi volano veloci di schermo in schermo, sia quello di un computer o di una TV che sono tutti interconnessi in tempo reale. Ad indurre ad una riflessione è la mancanza di contromisure da parte della politica. Da una parte la componente più demagogica, sempre esistita, sguazza in questo mare e si presta volentieri ad usare quelle paure come uno strumento per costruire il proprio consenso cercando di spazzare via le classi dirigenti tradizionali a cui è facile imputare l’origine di ogni “peste”, vera o presunta, che interessa la nostra società.

Dalla parte opposta troppo spesso chi si contrappone a questa caccia agli untori lo fa semplicemente cercando di proporre spiegazioni altrettanto fantasiose. Per continuare nel parallelo coi tempi delle grandi epidemie di peste, spesso chi contrastava le panzane sugli untori, lo faceva attribuendo la colpa di quanto succedeva ai “peccati” sociali: la peste come punizione di Dio agli uomini che avevano deviato dalla retta via. Si tornasse su questa e la pestilenza sarebbe stata debellata.

Potrà sembrare che oggi non sia così, ma non è vero. Qualcosa di simile lo fa per esempio chi pensa di risolvere i problemi inevitabili che pongono grandi migrazioni, che sempre portano a contatto mondi diversi e diseguali, con la buona volontà dell’accoglienza. Oppure chi pensa che l’inquinamento si possa risolvere facendo viaggiare tutti in bicicletta così non si produce CO2, o propone la cosiddetta decrescita felice (la quale ha anche versioni più raffinate di quelle proposte dai movimenti più naif).
Un contesto del genere pone gravi problemi alla politica vera, quella che deve farsi carico di risolvere i problemi di una transizione storica complicata. Tanto proporre campagne assurde per eliminare quelli che vengono additati come gli untori di turno, quanto l’invito ad esser meno “peccatori” per ritornare ad un mondo senza problemi, sono prese in giro dell’opinione pubblica.

Certo offrono ai singoli l’illusione di poter contribuire a risolvere i problemi mettendosi singolarmente o nella schiera dei cacciatori degli untori o dei penitenti che implorano il perdono divino. Ma non è così che si fa buona politica, perché bisogna partire dalla consapevolezza che i problemi hanno cause che possono essere individuate razionalmente e che possono essere rimosse con interventi altrettanto razionali. Certo questo porta a confrontarsi con la complessità dei fenomeni, che molto raramente sono semplicemente o buoni o cattivi, ma sono un impasto di elementi. Tanto per limitarsi al caso che giustamente continua ad essere al centro delle cronache, quello dell’Ilva, abbattimento di un inquinamento che ha conseguenze disastrose e salvaguardia della fonte di reddito di 20mila persone sono problemi che vanno risolti in contemporanea. Ma ciò richiede tempo, studio e fatica, innovazione e non regresso, capacità di creare una solidarietà diffusa che deve fare sentire tutti sulla stessa barca evitando che i movimenti scomposti di chi è bordo la faccia capovolgere (si sa come finisce in questi casi: i deboli annegano e solo qualche fortunato si salva).
E’ insomma necessario che l’opinione pubblica smonti questo spettacolo che crede di affascinare svelando il mistero degli untori che diffondono la peste. Si faccia capire alla politica che la gente del XXI secolo ha già superato quella fase, o almeno lo ha fatto la sua maggioranza che non vuole tornare indietro rispetto alle conquiste di un lavoro politico fondato sulla razionalità.


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