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Andrea Guerra

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Quando si dice la sfiga. Andrea Guerra, padano di Milano, classe ’65, manager d’impresa sublime, l’anima d’acciaio di Marchionne rinchiusa nel corpaccione di un funzionario di banca, si ritrova su una strada.

Ancora una volta.

È una strada lastricata di euro di liquidazione, di numeri e bilanci perfetti, e di accorate lettere di benservito, per carità. Ma, insomma Guerra, che era il deus ex machina, il presidente esecutivo di Eataly, è costretto a lasciare, dato che il suo principale Oscar Farinetti ha deciso, giustamente di conferire l’azienda alla propria discendenza.

Oscar, in effetti, ha un po’ di rampolli da piazzare. Il figlio Nicola Farinetti assumerà l’incarico di Ceo di Eataly; “Andrea, il più giovane, si occuperà delle aziende agricole, mentre Francesco accompagnerà il padre in Green Pea, il nuovo progetto che sarà lanciato il prossimo agosto”.

“Andrea Guerra ha dato un contributo decisivo per accelerare l’evoluzione della struttura organizzativa e ha favorito lo sviluppo dell’azienda, l’attuale focalizzazione geografica e la grande crescita professionale delle nostre persone”, dice l’Oscar fondatore “lo ringrazio per l’enorme apporto manageriale e umano fornito in questi quasi cinque anni di intensa attività”.

Tradotto significa: caro dottor Guerra, grazie di tutto ma – come si dice a Milano – “fora da i ball”, si accomodi alla porta. Ora, un po’ dispiace.

Un po’. Perché Guerra, riservato, sobrio ed educatissimo, e considerato dal Financial Times uno dei 25 manager migliori al mondo, ha una iella poderosissima, pari solo alla capacità di lavoro.

Con lui la storia è spietamente ciclica. Prima c’è Leonardo Del Vecchio, preso dalla voglia di pensionarsi, che nel 2003 lo chiama a dirigere Luxottica; e Guerra in dieci anni triplica il titolo e fa lievitare il fatturato da 3, 8 a oltre 7 miliardi. Solo che a Del Vecchio, malato di lavoro, viene voglia di tornare in campo e lo mette -sempre ringraziandolo- alla porta.

Dopodiché l’ottimo Guerra, viene tentato dalle sirene della politica, anzi da una sirena: Matteo Renzi. Il quale nel 2014 lo nomina consigliere strategico per le politiche industriali e relazioni con la business community. Quando sta per farlo ministro di qualcosa (dell’economia, dello sviluppo, dell’innovazione), ecco che lo stesso Renzi viene fregato al referendum e salta tutto il banco, Guerra compreso.

Dopodiché arriva appunto Farinetti il quale volendo dedicarsi all’orto chiede a Guerra di tenergli in piedi la baracca.

Guerra, con il solito piglio sussurrato gli fa, naturalmente, impennare il bilancio. Ne consegue, però, l’usuale sfiga: arrivano i figli del capo, e lo asfaltano. La solita storia: si fa il mazzo per gli altri, e ne riceve in cambio il licenziamento. Certo non mi sento di piangerne le spoglie, dato che con ogni liquidazione accumulata Guerra potrebbe comprarsi l’Alaska.

Ora mi dicono che il manager sia tornato a dedicarsi alla cosa da cui più ossessionato: la sua inusitata e variopinta collezione di statuine di elefante. Sempre in attesa, come al solito, che qualcuno torni a strattonarlo per la proboscide…


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