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Isaia Sales al quarto forum delle R - ESISTENZE Meridionali a Scampia

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ISAIA SALES*

AVVERTO da tempo un disagio profondo verso il «racconto» dominante sulle mafie. Nonostante i notevolissimi passi in avanti fatti negli ultimi decenni sul piano del contrasto, sul piano della reazione delle popolazioni interessate, sul piano della consapevolezza generale del pericolo che esse rappresentano, la narrazione è rimasta pressoché immutata.

La storia delle mafie viene raccontata come storia separata dalle vicende fondamentali che hanno caratterizzato il formarsi della nazione italiana, quasi come storia a parte, come “altra” storia, tutta meridionale, che si affianca a quella ufficiale ma non si mischia mai con essa. Ma in questo modo, se sono inconciliabili e incompatibili le due storie, diventa pressoché impossibile spiegarci il successo plurisecolare delle mafie. Infatti, questo successo lo si può forse spiegare semplicemente con la forza militare che le mafie esercitano sui territori che controllano? E’ questa una ipotesi che non regge storicamente. I pirati e i briganti erano molto più organizzati sul piano militare dei mafiosi. Sicuramente la loro durata plurisecolare non è dovuta solo alla forza militare. E allora, le mafie debbono il loro successo storico al consenso popolare? Neanche questa spiegazione regge.

I briganti, ad esempio, hanno goduto di un consenso popolare di gran lunga più vasto di quello dei mafiosi, di cui sono ancora oggi testimonianza canzoni, aneddoti, racconti, favole, eppure sono finiti. Il mafioso è nella storia il superamento del bandito, del brigante e del pirata. Egli ha successo permanente perché si relaziona con il potere costituito e non si contrappone ad esso, sia sul piano politico, sia su quello economico che su quello sociale. La storia del successo delle mafie si spiega grazie alle loro relazioni con coloro che avrebbero dovuto contrastarle. Queste relazioni sono state diverse nel tempo, si sono allentate o rafforzate a seconda del contesto, delle circostanze, dei rapporti di forza, del grado di consenso sociale riscosso, ma sicuramente sono interne alla storia dei poteri in Italia. Ciò vuol dire che le mafie non sono riducibile solo a «storia criminale», ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana.

Il Sud non è altra cosa dall’Italia, non è un mondo isolato, ha e ha avuto relazioni stabili con la storia nazionale, che ha influenzato e da cui è stato influenzato. Confrontando i delitti tra Italia e l’Europa la differenza consiste proprio in questo: che in Calabria, Sicilia, Campania e nelle altre regioni a presenza mafiosa il delitto si iscrive dentro una strategia del potere, in altre parti risponde quasi sempre solo a un obiettivo specificamente delinquenziale. Certo, se esse sono nate nel Sud e in tre regioni di quella parte dell’Italia e dell’Occidente un legame ci deve essere con le peculiari condizioni storiche e sociali, con una parte del contesto meridionale. Se le mafie sono nate a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria, e non a Londra, a Parigi o a Milano, qualche motivo ci sarà.

Quello che è sicuro è il fatto che non si può semplicemente additare come responsabile tutta la società meridionale, o la storia precedente all’Unità d’Italia assolvendo quella successiva, o puntando il dito contro una mentalità che si vorrebbe quasi ancestrale. Non tutto il Sud ha prodotto mafie ma solo una sua parte, e l’ha prodotta in connessione con vicende politiche e sociali che interagivano con altre «mentalità», altri regimi politici e altre condizioni economiche. Se le mafie sono un prodotto di una parte della Sicilia, di una parte della Campania, di una parte della Calabria, esse debbono il loro successo alle modalità con cui questi territori sono stati integrati nello Stato-nazione e alla reciproca influenza tra economia locale e nazionale, tra classi dirigenti locali e nazionali. Se il contesto socio-politico sotto i Borbone le hanno fatte nascere, esse si sono consolidate e sono assurte a protagoniste della storia nazionale dopo l’Unità. Era nelle possibilità del nuovo Stato di renderle un residuo borbonico e feudale, e invece le ha fatte diventare soggetti influenti sulla storia nazionale. L’Unità d’Italia, dunque, consentì a fenomeni legati alla sopravvivenza di ordinamenti feudali di transitare nel nuovo assetto statuale.

Era una legittimazione di necessità senza la quale non si sarebbe formata la nazione. L’Unità d’Italia, e in particolare il modo in cui si stabilirono i rapporti tra classe dirigente del Nord e del Sud, ha consentito la «nazionalizzazione delle mafie». Per cui, ad una responsabilità indubbia delle classi dirigenti meridionali, si affianca una responsabilità delle classi dirigenti delle altre realtà territoriali che hanno diretto la politica nazionale. Certo le mafie sono nate e cresciute nel Sud in una certa epoca e in un determinato contesto, ma in stretta interrelazione con la storia nazionale di cui il Sud e le sue classi dirigenti sono stati parti fondamentali. Perciò le mafie sono un problema della storia e della società italiana, non un problema razziale, territoriale, culturale, né tantomeno solo meridionale.

*Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

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