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MARCO Esposito, caposervizio della redazione Economia de “Il Mattino” da anni si occupa del Mezzogiorno.

Che tipo di società era quella meridionale prima dell’Unità e che modello di sviluppo ha avuto sino a oggi?

«Il Sud indipendente partecipava con forza e stili propri alla storia europea. Persa l’autonomia nel 1860, il declino prima politico, poi economico e culturale, più di recente persino demografico è stato profondo e ha mutato per taluni aspetti la natura di un popolo: ha portato nei meridionali una sorta di assuefazione alla sconfitta. Non solo: i primi governi unitari hanno affidato l’ordine pubblico di larga parte del Sud alla criminalità organizzata, spezzando quel rapporto di fiducia che permette di associare – di regola – lo Stato alla Giustizia. Oggi la sfiducia del popolo meridionale nelle istituzioni, anche le proprie, fa danni persino maggiori di quelli ereditati da 157 anni di politiche nazionali anti meridionali o a-meridionali».

Lei, quattro anni fa, scrisse “Separiamoci”. Ritiene ancora attuale quell’analisi?

«Lo è oggi più di allora perché tutti i fenomeni denunciati si sono accentuati. Nella sanità, per le infrastrutture, nei servizi sociali, sui trasporti pubblici locali e per le università si assiste al sistematico smantellamento dei diritti reali nel Mezzogiorno. E ancora: in Separiamoci proponevo per scongiurare la divisione di concentrare i fondi europei in un grande progetto nazionale di risanamento ambientale e sociale di vaste aree del Sud; ma il ciclo si avvia a chiudersi dopo esser stato frammentato più di quanto non avvenisse in passato, partorendo mini-patti tra Roma e singoli territori, senza alcuna idea guida».

Che cos’è a suo avviso il cosiddetto neomeridionalismo?

«Non mi aggrapperei alle definizioni. L’errore dei meridionalisti classici è stato partire dall’assioma – vale a dire una verità che non richiede dimostrazione – che l’Italia unita è un bene in sé e quindi la soluzione della Questione meridionale spettava all’Italia tutta. La storia recente ha dimostrato che molti territori possono svilupparsi meglio se separati. Si pensi all’ex Unione sovietica, alle repubbliche nate dalla ex Yugoslavia, alla pacifica divisione in due della Cecoslovacchia… L’Unione europea, pur con evidenti difetti da correggere, consente a piccoli Stati e a popoli poco numerosi di avere un peso mondiale. Il Sud indipendente, non dimentichiamolo, avrebbe più abitanti della Grecia o della Svezia. Se esiste o esisterà un neomeridionalismo, sono certo che questo assumerà forme simili a quelle indipendentiste scozzesi o catalane».

Il progetto ‘Napoli città Autonoma’, fortemente voluto da de Magistris, nasce dalle sue analisi e proposte. È un modello esportabile nel Mezzogiorno, seppur con i dovuti correttivi?

«NA-Napoli Autonoma è la proposta di Mo-Unione Mediterranea abbracciata dal sindaco di Napoli, il quale non a caso ha chiamato l’ex capolista di Mo, Flavia Sorrentino, per attuarla. L’autonomia, rispetto all’indipendenza, ha il vantaggio di poter essere attuata a Costituzione vigente. Il modello “NA” prevede il passaggio da una fiscalità assistita a una devoluta. Faccio un esempio semplice: supponiamo che esista una sola tassa, sui redditi, e che questa sia in massima parte nazionale. Lo Stato provvede poi a girarne una parte ai territori con minore capacità fiscale, in modo che gli enti locali possano pagare i servizi essenziali. Il sistema che propongo prevede che, una volta fissata la cifra spettante a costi e servizi standard, a territori come Napoli non vada un sussidio ma una fetta maggiore dell’imposta sui redditi. Il primo anno i due sistemi sono esattamente equivalenti. La scommessa inizia il secondo anno: se Napoli saprà far valere la propria autonomia sviluppando le risorse locali e creando lavoro, la medesima quota di imposta sui redditi porterà un gettito maggiore con benefici per tutti. Il modello è replicabile in tutte le comunità, anche demograficamente modeste, purché abbiano molteplici risorse. Mi spiego: se una città vive di una sola fabbrica, di una sola coltivazione, di un solo servizio allora una crisi in quel campo porterebbe al tracollo dei redditi e a ruota dei servizi sociali. Ma, in generale, il Sud è talmente ricco di risorse proprie e di capacità da valorizzare che la scommessa dell’autonomia può essere praticata e vinta ovunque».

Che Sud sarà quello del 2050? Una colonia desertificata o un territorio dinamico in grado di competere con le società europee e mondiali?

«L’unica scienza che può confrontarsi con tempi così lunghi è la demografia. La quale oggi prevede un crollo di abitanti nel Meridione. Quel che le statistiche non sanno vedere è l’effetto immateriale della capacità di accogliere e ancor più di assorbire, qualità che i popoli del Sud hanno mostrato da sempre e che sono stati costretti a tenere in esercizio dopo il 1860. Il Sud nei prossimi trent’anni dovrà non solo aprire le porte ai giovani del Mediterraneo, direi che è scontato, ma dovrà integrarli nella propria cultura di rispetto, smussando i settarismi. Se ci riusciremo, allora non avremo bisogno di competere: saremo faro della nuova civiltà mondiale».

Cosa si sente di dire ai giovani meridionali? Andate via o restate per cambiare?

«Per fortuna la domanda è superata. Si può andar via e contribuire al cambiamento nello stesso tempo. O restare e vivere da cittadini del mondo. I ragazzi di Buzzoole che da Napoli aprono sedi nel mondo restano o partono?».

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