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Don Pino Puglisi

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La Croce di Cristo si disvela compiutamente quale potere dei segni, e non come segno del potere

di GIANCARLO COSTABILE*

«A ME non importa sapere chi è Dio! A me importa sapere da che parte sta». Così parlava don Peppe Diana, giovane sacerdote del Sud ucciso dalla camorra mentre si accingeva a celebrare la messa mattutina nella parrocchia di San Nicola di Bari, a Casal di Principe. La sua colpa? Aver fatto del Vangelo una pedagogia militante al servizio degli ‘ultimi’, e soprattutto un manifesto laicamente sacro di denuncia della cultura mafiosa e delle sue pratiche educativo-comportamentali.

La parola di Cristo sprigiona tutta la sua straordinaria forza messianica nel documento che don Diana fece leggere in occasione del Natale 1991: «Dio ci chiama ad essere profeti. Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio». La Croce e la sua iconografia di potere si manifestano pienamente nelle biografie di don Diana e don Puglisi: i loro corpi sfregiati dal piombo mafioso diventano la carne storica della ‘resurrezione sociale’ delle terre meridionali. «Olocausto vuol dire bruciare tutta la propria esistenza sull’altare della croce» spiega don Pino Puglisi, che cerca il volto di Gesù negli sguardi dei giovani palermitani di Brancaccio. Sguardi feriti da un presente di dolore, immersi in una narrazione della violenza che aveva loro consegnato come ineluttabile l’adesione alla società mafiosa. Don Diana e don Puglisi si chiamavano entrambi Giuseppe: nome che traduce l’identità della cultura cristiana. Giuseppe è la paternità intesa come assunzione di responsabilità sociale e testimonianza dell’educazione quale strumento di consapevolezza collettiva.

Il martirio di questi due sacerdoti meridionali diffonde il racconto di una paternità popolare che si è fatta poi genesi di un rinnovato impegno sociale della Chiesa e dei cristiani nei confronti delle mafie. Così come il martirio di Oscar Romero – prelato salvadoregno ucciso dagli squadroni della morte di Roberto D’Aubuisson mentre stava celebrando messa – ha spinto il Vaticano a schierarsi con maggiore tensione etica verso l’emancipazione dei poveri e per il contrasto ai regimi dittatoriali dell’America Latina di quegli anni. Proprio nell’orizzonte dei Sud del mondo, di cui il nostro Mezzogiorno è segmento meridiano sul piano geo-politico, la Croce di Cristo, grazie a queste tracce biografiche discusse, si disvela compiutamente quale potere dei segni, e non come segno del potere, secondo la grammatica di un’altra grande figura del sacerdozio meridionale che è don Tonino Bello. La Chiesa ha per troppo tempo legittimato il potere dominante: per restare soltanto alla seconda metà del secolo appena trascorso, nel Sud del nostro Paese ha scelto di camminare a braccetto con le mafie. Nei Sud del mondo è stata, invece, parte fondativa del blocco coloniale dell’Occidente.

«Da che parte sta Dio ?», si chiedeva don Peppe Diana quando si contrapponeva frontalmente al dominio della camorra nel Casertano. La risposta è nella marcia a piedi del dicembre 1992 verso Sarajevo, città allora dilaniata dalla guerra civile e sotto assedio da parte dell’esercito serbo: a guidare i manifestanti che scandivano la parola pace, è don Tonino Bello, operato da poco di tumore allo stomaco, che morì qualche mese dopo. Sarajevo era avvolta dalla nebbia: il Vangelo di don Tonino Bello fu scintilla di luce perché sorgente di umanità. La storia della Chiesa meridionale e dei Sud del mondo vive costantemente la dicotomia tra il radicamento nei segni del potere e la naturale propensione del Vangelo a farsi potere dei segni. Dal superamento di questa contraddizione, dipende la costruzione di una pedagogia autenticamente militante e cristiana: contro le mafie e ogni forma di offesa dell’umanità. Che è ‘laicamente sacra’, come insegna la paternità cristiana e meridionale di don Diana, don Puglisi, don Romero e don Bello. Perché in fondo Dio è Sud.

*Docente Unical

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