X
<
>

Gli studenti dell'Unical a piazza Plebiscito. Sotto con Corona alle Vele di Scampia

Condividi:
3 minuti per la lettura

di GIANCARLO COSTABILE*

«PER liquidare un popolo si comincia con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia».

Queste parole di Milan Kundera ci aiutano a decostruire la matrice antimeridionale della genesi dello Stato italiano. L’invasione culturale, spiega Paulo Freire, è sia dominazione sia tattica di dominazione: è un sofisticato meccanismo di controllo delle menti funzionale all’accettazione passiva dell’ideologia dominante. Si nutre di un paternalismo dolciastro, per il quale chi domina si presenta al dominato con il volto camuffato dell’amico. Il sistema economico-sociale italiano, al di là della retorica nazionale, è tuttora caratterizzato da un profondo squilibrio territoriale tra Nord e Sud del Paese.

Il Mezzogiorno è ancora, innegabilmente, una colonia interna, il cui sottosviluppo civile è stato governato attraverso il potere mafioso che ha svolto per svariati decenni il ruolo di gestione dell’ordine pubblico e di mediazione del conflitto sociale. Eppure nell’immaginario collettivo di questo Paese, ha inciso più il pregiudizio lombrosiano, per l’analisi dei comportamenti del popolo meridionale, che l’opera sistematica di spoliazione dei nostri territori resa possibile dall’accordo organico di potere tra il governo centrale e la locale borghesia coloniale.

L’emigrazione forzata è stata l’unica possibilità di stare al mondo per i giovani meridionali che non hanno voluto piegarsi a vivere secondo gli schemi sociali della pedagogia dell’inginocchiatoio. Siamo stati educati a pensarci come ‘esseri di meno’, a Sud di Roma. Eterni subalterni perché ontologicamente minorati. Le rappresentazioni televisive delle mafie, del resto, sono un poderoso strumento per alimentare questo feroce pregiudizio antimeridionale: il Sud come luogo canonico dell’omertà e del silenzio. Uno spazio esistenziale e territoriale cristallizzato in modo permanente, e ostaggio di un mesto presente senza divenire. Il reato peggiore di cui l’Italia si è macchiata nei confronti delle terre meridionali è il tentativo di uccidere la speranza: significa rendere del tutto inutile la costruzione del futuro.

Il Meridione ha bisogno di una pedagogia esplicitamente postcoloniale in grado di farsi progetto compiuto di (ri)costruzione collettiva del Paese, a partire dalla sua contradditoria storia nazionale. Abbiamo l’urgenza di una radicale opera di decolonizzazione dei nostri ambiti mentali, linguistici e comportamentali. C’è già un modello di riferimento che può fungere da volano: è la Scampia degli ultimi anni. L’altra Scampia: quella che, pur lottando a viso aperto, fatica ad essere narrata, perché è un potente grimaldello contro l’ipocrisia dell’antimafia salottiera, commerciale e radical chic, la cui funzione è quella di legittimare un approccio meramente retorico al problema criminale, in modo da tenerlo scientificamente e politicamente lontano dai suoi storici nessi con il potere governativo.

A Scampia, il modello di riqualificazione urbana passa attraverso la riconversione dal basso dei beni comuni e di quelli confiscati alla camorra, producendo un’economia legale e solidale intimamente connessa alla costruzione del nuovo protagonismo politico delle associazioni culturali, dei comitati di quartiere, delle cooperative socio-educative. L’Officina delle Culture Gelsomina Verde rappresenta la storica cesura con la pedagogia postrisorgimentale dell’educazione allo stato di minorità del popolo meridionale. Cambiare è possibile anche a Sud di Roma, diventando Stato anche laddove lo Stato ha scelto di non esserci. La democrazia popolare, nata dalla ribellione delle periferie napoletane, è l’orizzonte strategico per rinegoziare un nuovo patto fondativo tra i territori del nostro Paese. La nuova Italia deve nascere dall’emancipazione del Sud, dalla rottura con il ‘modello Cavour’ e da un’intima bonifica del sentire collettivo della nazione in modo da chiudere i pozzi, una volta per tutte, del veleno ideologico lombrosiano.

*Docente di Storia dell’Educazione alla Democrazia Università della Calabria

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE