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Silvia Vecchini e Antonio Vincenti, in arte Sualzo

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17 minuti per la lettura

Silvia Vecchini e Antonio Vincenti, in arte Sualzo, sono gli autori di Le parole possono tutto (Ed. Il Castoro) opera seminale nella quale raccontano la difficile arte del crescere attraverso un viaggio nella cultura ebraica e nell’adolescenza. Un viaggio in cui è possibile scoprire il valore e l’importanza delle parole. Li abbiamo intervistati per farci raccontare la difficile arte di scrivere storie per ragazzi

Una delle cose che riesce meglio agli adulti è scordarsi di quanto sia stato difficile essere ragazzi. Ci dimentichiamo le paure, i dolori che si affrontano nella crescita, le difficoltà di trovare la nostra dimensione personale.

Da adulti resta solo una nostalgia della spensieratezza, che è più un’invenzione di un ricordo che un ricordo vero e proprio. Ma se ricordassimo davvero tutto di quell’insieme di emozioni contrastanti, ci sforzeremmo di aiutare il più possibile le nostre controparti attuali, questi giovani cuori che oggi come ieri affrontano la sfida di diventare sé stessi.

Un valido aiuto sono, come sempre, i libri, che custodiscono storie, capaci di insegnare esperienze e punti di vista, tra le righe, tra le pagine, o tra le vignette nel caso dei fumetti.

Tra queste opere, che insegnano tanto senza salire mai in cattedra, rientra Le parole possono tutto, graphic novel per ragazzi pubblicato da Editrice Il Castoro, opera della coppia artistica (che è anche coppia di vita) composta dalla scrittrice Silvia Vecchini  e dal disegnatore Sualzo.

Le parole possono tutto è un libro che racconta la fine di un mondo interiore e la nascita di un’altra dimensione del proprio sé, in cui la protagonista, la giovane Sara, crescendo impara il valore delle parole e la loro potenza creativa, ma anche la sofferenza che deriva dal non riuscire a dare a quelle parole lo spazio che reclamano.

Le parole possono tutto è quel fumetto che ognuno di noi avrebbe voluto leggere quando era un ragazzo per cercare di dare un nome a ciò che si agitava nel nostro cuore.

Le parole possono tutto è un titolo che anticipa in parte alcuni aspetti della storia che il volume contiene.
Ciò che non anticipa è l’importanza nell’economica del racconto di una realtà che al concetto di parola attribuisce un valore fondamentale, cioè la cultura ebraica. Da cosa deriva la scelta di renderla coprotagonista del racconto?

Silvia Vecchini: La scelta viene prima da una componente personale, perché io mi sono appassionata a questa cultura, a questo mondo, da giovanissima. Per Sara, la protagonista del libro, è stato un incontro fortuito e fortunato. Io me la sono andata a cercarla. C’era questo interesse per qualcosa che non conoscevo bene, qualcosa verso cui avevo però una grande attrazione, qualcosa profondamente legato alle parole. Ho iniziato a scrivere da ragazzina e ho riposto nelle parole la massima fiducia. Sentivo un’assonanza profonda con questa cultura che condensa questa fiducia nelle parole, addirittura nelle particelle delle parole che sono le lettere. Questa fiducia è espressa nel massimo grado fino ai segni più piccoli.  Come se da ogni lettera potesse nascere un mondo e come se ogni lettera potesse cambiare tutto. Quindi una grande attenzione verso questi segni che ci permettono di comunicare, trasposti in una lingua che non conoscevo e che stavo scoprendo. Anche questo legame “magico” con le parole, come se le parole potessero generare dei mondi. In ebraico c’è questa vicinanza tra l’espressione parola e l’espressione azione, fatto.  

Io ho sentito le parole proprio così. La componente personale è dunque l’eco della coincidenza temporale del momento dello studio della lingua ebraica, avvenuto per pura passione, con il momento in cui stavo cercando le mie parole, il mio modo di stare al mondo. Per tanto tempo ho cullato l’idea di raccontare in una storia per ragazzi questa mia esperienza, questa mia scoperta, che mi aveva sostenuta e nutrita nel momento di cambiamento.  

C’è una componente autobiografica, dunque.

SV: Si.

Sualzo: il rapporto con questa scrittura è il suo. In appendice al volume ci sono le foto di alcuni quaderni, che riportano parole e lettere ebraiche. Sono foto originali dei quaderni che Silvia compilava quando studiava l’ebraico.  È anche il momento in cui ci siamo conosciuti. Un momento epifanico.

Ce lo raccontate?

Sualzo: Io l’ho conosciuta quando lei era alla scoperta di questa… non è solo una lingua… È un insieme di cultura, di storia, di tante cose. Mi ha trasmesso immediatamente qualcosa. Io ero un cultore della musica, anche di musica ebraica. Ma non conoscevo questo mondo. Sono diventato, con questo incontro, un grande appassionato di cultura ebraica. Sento un’appartenenza, quanto meno per amore, perché non ho radici ebraiche.

 Quindi parte della vostra storia vive nella storia che avete raccontato in questo volume.

S.V:  È passato tanto tempo da allora, ma c’è un aspetto in tutto ciò che ancora mi incuriosisce. Noi abbiamo l’occasione di incontrare tanti ragazzi, nei laboratori a scuola, nelle presentazioni. Li ascoltiamo, abbiamo l’opportunità di scoprire qualcosa di loro.

Abbiamo colto che ci sono dei momenti nell’adolescenza in cui uno prende delle strade strane, o si accendono interessi molto particolari, che prima non c’erano, che nessun altro ha intorno a te. Come è successo a me con la cultura ebraica.

Sualzo: Lo dice anche la protagonista del volume. A volte c’è una necessità di altrove. A un certo punto della vita hai bisogno di qualcosa di tuo, e anche chi ti sta vicino non ci deve entrare. È tuo e solo tuo.

S.V.: È qualcosa legato alla ricerca della propria identità, che può anche durare poco, essere di passaggio. C’è questa spinta a cercare il proprio posto. A volte per territori inconsueti.

La parola diventa anche un modo per “dire sé stessi”.  Sara, la protagonista, ha un po’ perso la capacità e la voglia di farlo. Nella vostra esperienza di narratori per ragazzi quanto è importante per i vostri lettori esprimersi, raccontarsi, riuscire a parlare di sé stessi?

S.V.: Secondo noi tantissimo. Questo è un tema presente anche in altre nostre opere. In Fiato sospeso (Collana TipiTondi, Ed. Tunué ndr), la protagonista inizia a scrivere le proprie poesie, e anche quella è una piccola nascita per lei… In 21 giorni alla fine del mondo (Ed. Castoro ndr), c’è tutta la ricerca delle cose che non si dicono, perché troppo complesse, parole che possano ferire, o far tornare a galla cose a cui nessuno vuole pensare. Ho scritto anche un romanzo, sempre per ragazzi, su questo tema che si intitola Le parole Giuste (Ed. Giunti ndr).  Io giro sempre intorno a questo argomento: la ricerca della propria voce. Vale per gli adolescenti perché sono in un momento di passaggio, ma vale per tutti. Per me è centrale.

Quello che ci interessava indagare con questa storia è il passaggio che si ha nell’adolescenza, in cui vacilla la fiducia nelle parole. Perché le parole che hai ricevuto quando eri bambino sono ora insoddisfacenti, o sono state tradite, perché le cose cambiano

Sualzo: C’è la presa di coscienza del fatto che non puoi più credere a tutte le parole, precise e perfette, che ti sono state dette.

S.V.: Il mondo, crescendo, si allarga, diventa più grande, ci sono altre persone che vivono diversamente da te. Quella verità non è proprio quella, quella storia non è esattamente come la pensavi tu. In questo libro c’è il tema dell’abbandono, delle separazioni, della mancanza. Le cose si trasformano: se pensiamo all’amicizia nell’infanzia, nella adolescenza è molto più complessa, è difficile che sia per sempre. Anche la tua storia familiare la vedi in un altro modo. La fiducia nelle parole vacilla, anche quando tutto va bene. Alla nostra protagonista non tutto va bene e a maggiore ragione capisce che non le interessano le parole vuote. È un momento di passaggio che ci deve essere, perché poi i ragazzi, se le cose funzionano, troveranno un altro modo di parlare, di dire le loro parole, di parlare da grandi con i loro genitori, di prendere parola nell’amicizia, nell’innamorarsi. È un passaggio dovuto e a volte può essere complesso.  

Sualzo: Sara rifiuta le parole che non generano niente, per poi scoprire e appropriarsi di parole generatrici, capendo che le parole hanno forza creativa.  C’è anche questo aspetto della cultura ebraica che ci piace molto.  Ogni racconto è un racconto più ampio, contenuto in un racconto più ampio, e tutto parte dalle parole.  Quindi anche noi inseriamo il nostro racconto in qualcosa di più grande.

S.V.: Ci è capitato tante volte di scrivere e disegnare con i ragazzi nei laboratori di scrittura e disegno di fumetti. In queste occasioni loro inventano le proprie storie. Trovare un mezzo per dire le proprie parole è fondamentale. Dire le proprie parole significa trovare il proprio posto. Poi non tutti devono scrivere e disegnare, ma quando siamo insieme a loro hanno la necessità non solo di essere ascoltati ma anche di capire loro stessi quale voce hanno. Per questo per noi quello della parola e del raccontarsi è un tema centrale.

C’è un luogo comune, che deriva da una generica e diffusa mancanza di conoscenza di un fenomeno complesso qual è quello della letteratura disegnata, per il quale un fumetto sia automaticamente un prodotto destinato ai più piccoli. Chi lavora in questo settore sa che non è così. Se escludiamo l’universo Disney, parte del mondo della Bande dessinée (Asterix & co), il fumetto difficilmente è rivolto ad un pubblico adolescenziale e preadolescenziale. Editrice Il Castoro, marchio sotto il quale è apparso il vostro ultimo lavoro, sta operando molto bene per sopperire a questo vuoto con tanti titoli pensati per lo specifico target in oggetto. Ma una la rivoluzione l’abbiamo avuta dieci anni fa con la collana delle Edizioni Tunué Tipi tondi e con una vostra opera: Fiato sospeso.  Cosa significa scrivere e disegnare per un pubblico così sensibile come è quello dei ragazzi?

Sualzo: È un pubblico a cui ti puoi rivolgere solo se lo eleggi, cioè se lo scegli. Se fai di questo mondo il tuo mondo narrativo. Non esiste “Mi è venuto un libro per ragazzi e lo faccio”. Tu devi entrare in un mondo in cui rivolgerti ai ragazzi è per te cosa di primaria importanza. Io ho messo in “standy by” il mio percorso di autore di fumetti per adulti, perché ho sentito che fare fumetti per ragazzi non poteva essere un’incursione, un episodio. Ho capito che per rivolgermi a questo pubblico dovevo entrare in un altro mondo, capirlo, e restarci. Non si fa il turista da autore nel campo dei ragazzi. Per molti la tentazione è forte, e tanti autori affermati, vogliono farlo, come se fosse un’intuizione. È un lavorare molto seriamente. C’è un linguaggio, un modo da capire che non è più facile, non è più semplice, è articolato e complesso come se avessi un pubblico adulto, ma devi tenere conto di un sacco di variabili che non puoi dare per scontate, perché ti rivolgi ad un pubblico in crescita, in trasformazione. Con i ragazzi o centri il nocciolo della questione e lo tratti con una grande onestà intellettuale, oppure rischi di perdere la possibilità di farti capire e di comunicare veramente.  

S.V.: C’è un’intervista molto bella di un autore, per me  di riferimento, David Almond. Almond è uno scrittore eccezionale, che potrebbe rivolgersi a qualsiasi pubblico. Nell’intervista gli chiedono perché scriva per ragazzi. Lui risponde che “Quando scrivo per ragazzi sento una grande esigenza di dire la verità. I ragazzi sono interessati a questioni grandi e complesse”. Un bambino, un ragazzo si chiede se esiste Dio, cosa succede dopo la morte, se esiste il male e se esiste perché esiste. Alla loro età si pongono ancora le grandi domande. Per chi scrive è molto interessante avere a che fare con lettori così. Senti che puoi parlare di tutto. E senti anche che hai una grande responsabilità, almeno io sento di averla, che è quella di dire la verità. Contemporaneamente, sempre dicendo la verità, devi tenere aperta la speranza.

Sualzo: Che non significa imporre sempre un happy end. Significa non sprofondare nel nichilismo.

S.V.: Tenere insieme queste due cose non è semplice.

Sualzo: Realismo e speranza.

S.V: L’abbiamo fatto anche quanto abbiamo scritto La zona rossa (Ed. Il Castoro ndr) che è un fumetto che raccontava il terremoto. Non abbiamo voluto chiudere la storia con l’immagine di una ricostruzione dei luoghi distrutti, dicendo “Anni dopo è andato tutto bene”. Abbiamo chiuso con un’idea di speranza, però dicendo la verità, cioè dicendo che per alcune cose ci vuole molto tempo.

Sualzo: Anche perché noi incontriamo spesso i nostri lettori, nei laboratori di scrittura e disegno per esempio, e loro ci fanno delle domande del tipo “Perché nel libri la casa è stata ricostruita e la mia ancora no?”. Sembra banale ma è una domanda a cui devi rispondere.

Quindi nella narrativa per ragazzi è fondamentale dire la verità ai lettori, perché altrimenti questi si sentono traditi?

S.V: Bisogna dire la verità in due modi. In primo luogo nel contenuto della storia, dato che la storia fa fare un percorso al lettore, gli comunica delle cose e queste cose devono essere, per noi, vere. L’altra verità sta nell’autenticità della storia. Noi riteniamo importante non “forzare il racconto”, essere autentici.

Sualzo: Noi non vendiamo tesi, insomma.

S.V: Per esempio in Le parole possono tutto, abbiamo messo un elemento fantastico, che è il golem, ma non perché ci è stato chiesto un racconto dai toni più fantastici, ma perché questo elemento, nell’economia della storia aveva il suo posto. Senza forzature o senza seguire mode.

Sualzo: Ecco, questo è il segreto per restare sempre autore di nicchia, come noi.

S.V: Esatto!

(Ridono entrambi Ndr)

Il Golem nella storia è, per me, il bisogno della protagonista di dare fisicità ad un suo IO protettore.  Il Golem nasce dalla protagonista, diviene qualcosa di esterno a lei e poi ritorna in lei nel momento in cui le cerca un maggiore equilibrio.

S.V: È così. Anche il suo nome “Golem” (traducibile come “Embrione” ndr) ha a che fare con un abbozzo, una forma indefinita, qualcosa che deve capire cosa sia e cosa può diventare.

Sualzo: Proprio come un adolescente.

S.V: Nella leggenda il golem, oltre a non avere intelletto e volontà, non ha parola. Questo elemento mi ha colpito molto. Per Sara rimane una presenza che ascolta le sue parole. E questo ascolto in un certo qual modo provoca altre parole. Come se per lei il golem fosse il suo doppio. Ma al tempo stesso è un deposito. Un luogo in cui mettere tutte quelle parole che sono in lei, che non riesce a dire. Non riuscendo a tirarle fuori queste parole crescono in lei e diventano ingombranti. Ad un certo punto queste stesse parole la minacciano, perché le cose che non diciamo le possiamo tenere nascoste per un po’ ma poi possono metterci a rischio. Sara nasconde le parole nel golem e ad un certo punto non capisce più se è una presenza buona o cattiva. Infine comprende che le parole deve lasciare andare, disseminandole tra le persone a cui sono destinate. Ma prima di riuscire a farle andare vie le deve riaccogliere in sé.

Sualzo: Golem è da un lato quella parte di sé che l’ascolta, dall’altro è quella parte di sé che conserva il suo dire per fargli ritrovare le parole quando sarà pronta a pronunciarle, liberarle, usarle.

Chi non conosce il complesso mondo della letteratura per ragazzi difficilmente potrebbe immaginare tutti questi piani di lettura.

Sualzo: La stratificazione delle storie per ragazzi è un elemento molto importante. Pensa ad una delle macchine narrative più prodigiose del ‘900, che sono I Simpson. Possono essere viste dai bambini di sei anni e dai laureandi in teologia. Ognuno ci troverà il livello a cui è arrivato. Queste sono le storie che funzionano, cioè quelle storie che ognuno può fruire per il proprio livello.

Qual è dunque il messaggio che voi autori avete volute trasmettere ai vostri lettori con questo volume?

Sualzo: Non esiste opera senza messaggio, ma noi non partiamo mai pensando al messaggio dell’opera.
Per noi raccontare una storia è la cosa più bella che si possa fare. Anche a livello pedagogico credo che sia la cosa più educativa che io possa immaginare. Raccontare una storia. Poi, dentro la storia, per forza di cose si crea un messaggio. Ma lo scopriamo anche noi nel corso della sua creazione.

S.V: Ci possono essere diversi messaggi all’interno di Parole possono tutto, a seconda del punto di vista su cui vogliamo focalizzarci. Forse quello più importante è che crescere può non essere così semplice. Uno dei protagonisti del racconto dice che anche Dio nel creare l’universo ci ha provato tante volte (Secondo la tradizione ebraica Dio ha provato a creare il mondo 27 volte prima di riuscirci ndr) e che al ventisettesimo tentativo, quello buono, avrebbe aggiungo “Speriamo che tenga”.

Sualzo: Quindi, in fondo, si può anche sbagliare. Il messaggio rivolto ad un ragazzo è anche questo: “Fai i tuoi sbagli”.

SV: O almeno “Prova a mettere al mondo il tuo mondo”. C’è questo senso del fare, del creare, rappresentato anche dalla protagonista, Sara, che manipola l’argilla. Alla fine noi abbiamo scelto di chiudere questa storia con la parola Bereshit, che significa in “principio”, proprio perché da questo momento Sara è libera di creare sé stessa e il suo mondo.

Sualzo: Anche questo è un messaggio. Tu che leggi sappi che in ogni momento della tua vita, anche nel momento in cui stai leggendo questo libro, puoi mettere un punto di inizio alla tua storia.

La storia si conclude quindi con un nuovo inizio.

Sualzo, sotto il profilo grafico c’è stata una grande evoluzione. I disegni si sono fusi alla perfezione con testo, creando un tutt’uno ricco di immagini evocative. La sua cifra stilistica si è evoluta in questo racconto

È un’evoluzione che ho cercato molto. Ho cercato di fare come Sara, di andare in un altro io grafico. C’è anche una piccola citazione, in un una delle tavole, dove evochiamo Little Nemo (Personaggio di Winsor McCay, uno dei più grandi autori di tutti i tempi, apparso dal 1905 sui principali quotidiani americani. Ndr)

La vostra è una creatività condivisa. È difficile dire dove finire l’arte di uno e dove iniziare quella dell’altro. Il risultato finale è lineare, una perfetta per quanto difficile fusione di intenti. Come avviene questo processo?

SV: Io scrivo diverse cose. Prime storie, albi illustrati per ragazzi, romanzi per i più piccoli. Ci sono però alcune storie che io racconto a Sualzo e lui capisce se quella storia è un fumetto, se nella sua mente scorre come un fumetto. Io mi fido di questa sua lettura.  Il passaggio successivo per me è scrivere una “cosa” che non è una sceneggiatura.

Sualzo: È più un trattamento con dialoghi non definitivi…

SV: Ci sono le ambientazioni, le atmosfere, a volte flussi di coscienza e i pensieri dei personaggi… questo perché a me interessa molto che lui entri nella storia con me. Poi però mi interessa capire cosa succede nella testa di un fumettista quando gli racconti una storia. Quindi in verità la regia del fumetto è sua.

Sualzo: In realtà è come se fossimo un autore bicefalo, costantemente interveniamo in due su tutto. Ci sono sicuramente delle idee non condivise… ma sinceramente non ci ricordiamo chi dei due le abbia avute!

Grazie ad entrambi. Oppure grazie all’unico autore bicefalo. Scegliete voi quale parola vi piace di più, in questa intervista dove le parole sono state così importanti!

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