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di LEO AMATO
POTENZA – Conoscenze nei palazzi, conoscenze negli uffici, conoscenti commercianti e imprenditori, con le radici ben salde nel crimine. Questo in breve Antonio Cossidente. Otto anni e sei mesi di reclusione in carcere nel processo di primo grado contro il clan dei basilischi per qualcuno possono sembrare pochi, rispetto ai venti e passa per il capo storico del gruppo.
Ma la richiesta del pm era del triplo, la seconda in ordine di importanza tra gli 81 imputati, anche se il giudice l’ha retrocessa dietro altre tre. Chissà lui come l’ha presa. Negli atti dell’inchiesta sul Potenza calcio c’è una montagna di intercettazioni e servizi di pedinamento datati proprio in quei giorni, nel dicembre del 2007, quando è arrivata la sentenza. Non dev’essersi fatto scoraggiare insomma, ma se c’è una morale nella storia di questi giorni è che se uno ha un conto aperto con la giustizia a un certo punto c’è chi passa a riscuotere, e a volte il caso gioca dei brutti scherzi.
Ieri mattina mentre Giuseppe Postiglione veniva accompagnato da un passaggio occultato agli occhi del pubblico dentro l’aula dove era atteso per le domande di rito, al piano sopra è iniziata l’udienza preliminare di un processo per un episodio vecchio almeno di sei anni, che qualcuno ricorda ancora. L’imputato principe è lui, Antonio Cossidente, accusato con altri due di «accesso abusivo a sistema informatico» con l’aggravante di aver agevolato l’associazione mafiosa dei basilischi. In sostanza sei anni fa, in una perquisizione nel suo domicilio di allora, la polizia aveva fatto una scoperta sconvolgente. Tra i cd del computer Cossidente nascondeva la memoria digitale di un computer dei carabinieri con una serie di documenti riservati: atti d’indagini in corso, «notizie sui sistemi di protezione individuale» di una serie di soggetti considerati a rischio di attentato dal Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, e il piano di difesa della caserma di Viggiano. Ne seguì un’indagine in cui vennero coinvolti tre militari dell’Arma, tra i quali un sottufficiale che di lì a poco si sarebbe guadagnato sul campo la medaglia d’oro nel contrasto al clan dei casalesi. Le accuse vennero archiviate, ma c’è stato un periodo in cui i poliziotti indagavano sui carabinieri. Oggi succede il contrario, e al centro sempre lui.
Il curriculum
Antonio Cossidente nasce a Potenza il 22 ottobre del 1965 e inizia il suo percorso nel crimine verso i 20 anni, con un gruppo di persone destinato a costituire il nocciolo della nascente “famiglia basilisca”, un progetto accarezzato da tanti, soprattutto nel capoluogo: riunire le “famiglie” della regione in un cartello solo, e trattare alla pari con i padrini d’oltreconfine. Venne indagato per droga, ma la prima condanna definitiva arrivò nel 19’92 per associazione a delinquere ed estorsione: quattro anni e dieci mesi di reclusione. Nel 1995 venne denunciato per associazione mafiosa, e quattro anni dopo finì in carcere con altri 82 nella prima operazione contro il clan dei basilischi. Scarcerato per scadenza termini venne arrestato di nuovo nel dicembre del 2003. Per l’accusa sarebbe stato il promotore di un’associazione che aveva messo le mani sull’affare delle macchinette del videopoker, creando un monopolio nel potentino e in alcune aree del Vulture facendo spesso ricorso alla violenza contro gli esercenti dei locali, e di fatto gli contestano le estorsioni.
L’omicidio Gianfredi
Vincenzo Di Cecca negli ambienti della mala è conosciuto come il “toro di Gravina”. Il figlio venne ammazzato a Matera nel dicembre del 1997, in una guerra tra bande per il controllo del mercato della droga. Mentre andava in cerca di vendetta Di Cecca avrebbe incontrato Antonio Cossidente, che si sarebbe offerto di sistemare la cosa dietro compenso. Si sarebbe accreditato con lui facendo espresso riferimento all’omicidio di coniugi Gianfredi, trucidati a Potenza solo qualche mese prima. Cossidente sarebbe stato l’organizzatore. Con quest’accusa nel luglio del 2004 venne arrestato assieme ad altri tre, gli esecutori materiali, ma al Riesame il teorema cadde, e Di Cecca, che aveva preso a collaborare con la giustizia raccontando dell’incontro con Cossidente, si tirò indietro e ritrattò quanto detto. L’omicidio di Giuseppe Gianfredi e della moglie resta ancora senza un colpevole.
Gli abboccamenti segreti
Se non è ancora chiaro lo spessore del personaggio in questione, c’è una leggenda che si racconta da qualche anno a questa parte. Cossidente è un uomo sveglio, e frequenta politici e imprenditori, come dimostra proprio l’inchiesta sul Potenza calcio. Tra le sue conoscenze ci sarebbe un ufficiale dei servizi di intelligence, un agente segreto, tanto per capirsi. La voce ha scosso a lungo gli ambienti attorno al Palazzo di giustizia, ma non è mai stata verificata. Nell’ordinanza del Potenza calcio i carabinieri lo definiscono «doppiogiochista».

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