X
<
>

Condividi:
3 minuti per la lettura

L’inserto domenicale del Corriere della Sera del 4 novembre, in un articolo di Adriana Bazzi, richiama due indagini sull’emigrazione di laureati e ricercatori tra nazioni ricche e povere del mondo. Il primo è uno studio realizzato per la rivista Nature, il secondo è stato realizzato da due ricercatori italiani, Chiara Franzoni e Giuseppe Scellato e da Paula Stephen, una loro collega americana.

Inutile dire che i risultati per l’Italia sono al limite del disastro, non tanto a causa dei laureati e ricercatori italiani che vanno a lavorare all’estero (anche lì il piatto piange), ma soprattutto perché, di fronte ai tanti cervelli italiani che vanno a fare fortuna ed ad arricchire i paesi ricchi, sono pochissimi i ricercatori stranieri che vengono a lavorare in Italia. Non c’è certo da meravigliarsi, in Italia i ricercatori sono una specie guardata con sospetto: le banche non si arrischiano a dare un mutuo ad un giovane ricercatore, figurarsi se gli finanziano le attività di ricerca quando possono portare ad innovazioni e a nuovi prodotti. Gli stranieri questo lo sanno e sanno anche che da noi gli stipendi dei ricercatori sono tra i più bassi, le prospettive di carriera limitate e l’arroganza dei baroni è sempre attenta a mettere un serio limite alla selezione per merito.

Anche se loro non lo chiamano così, Franzoni e soci hanno analizzato il disavanzo italiano dei cervelli (se lo vogliamo dire all’inglese possiamo coniare il termine brain spread). Mentre tutti si preoccupano dello spread tra BTP e Bund tedeschi, quasi nessuno si cura dello spread dei ricercatori di cui soffre il Bel Paese. Non si tratta di capitale finanziario, ma di capitale umano, che dovrebbe essere anche più importante dell’altro. Non vi voglio annoiare con formule, ma quello che ci interessa molto, come italiani, è la differenza tra il brain gain e il brain drain. In poche parole, il differenziale tra i cervelli che importiamo (pochissimi) e quelli che esportiamo (molti).

Dai risultati dell’analisi, l’Italia è seconda soltanto all’India nel differenziale negativo dei cervelli che per noi è di -13% (soltanto il 3% dei ricercatori che lavorano in Italia sono stranieri, mentre il 16% dei cervelli italiani lavorano all’estero). Per darvi un’idea del confronto con le altre nazioni avanzate, il Regno Unito è a +8, la Francia a +4, il Canada a +23, la Svezia a +24, gli Stati Uniti a +33!

Il discorso si dovrebbe chiudere qui, perché se i numeri sono questi, e sono questi, o si corre ai ripari o è meglio starsene zitti per la vergogna. Se fate il conto dei costi necessari per formare un laureato o un ricercatore (alcune centinaia di migliaia di euro) e poi moltiplicate per il numero di quelli che regaliamo all’estero, è facile capire la fotografia disastrosa che viene fuori dal disavanzo di conoscenza e di capitale umano e dunque anche di valore economico che registriamo. Qualche giorno fa anche il presidente Napolitano ha fatto un appello ad investire sulla ricerca e sui ricercatori, specialmente in tempi di crisi, ma chissà se qualcuno tra i nostri governanti lo ha ascoltato. Forse erano impegnati a tagliare l’assistenza ai malati di SLA o a rifinanziare il ponte di Messina.

Ci serve innovazione, progresso, idee nuove e invece di investire sui cervelli italici e di oltre frontiera, i nostri li regaliamo e quelli stranieri non siamo in grado di attrarli. Quanto siamo generosi noi italiani! Oops! forse l’aggettivo giusto non è “generosi”, me ne verrebbe un altro, ma preferisco evitarvelo.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE