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Torno sul tema delle generazioni perché, mi sono accorto, che è una questione bruciante: causa di conflitto, in effetti. Durante la presentazione del saggio “Generazioni. Età della vita, età delle cose”, di Remo Bodei (all’interno della discussione con Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo intitolata “Aspirazioni, previsioni e responsabilità”) ha preso la parola la giornalista Rai, Annarosa Macrì la quale lamentava che «dopo aver tanto faticato in gioventù e nella maturità, ora la sua generazione deve prendersi cura di quella dei figli» (che lei erroneamente definisce dei “nativi digitali”) che, comunque, godrebbe anche di una sorta di vantaggio, che è appunto quello della conoscenza “innata” delle nuove tecnologie digitali.
Innanzi tutto, c’è da chiarire che quella che segue la sua non è la generazione dei nativi digitali, ma ce n’è un’altra in mezzo: la nostra (la mia e quella del figlio), appunto: i quarantenni, che fino al poco rappresentativo caso del presidente del Consiglio dei Ministri e il suo stretto entourage di amici non era affatto rappresentata in nessuno degli ambiti presidiati invece dalla generazione precedente, giornalismo di Stato compreso.
E poi, davvero basta saper utilizzare con naturalezza un pc per risolvere i problemi di una generazione? Non credo.
Ma la questione non è, comunque, questa. E non è neanche ammettere o negare – ché è innegabile – che la generazione dei nostri padri abbia faticato per ottenere quello che ha e che ora, per forza di cose, deve compartire e lasciare in eredità alla generazione dei figli; benché non si possa nemmeno ignorare che loro hanno avuto la fortuna di nascere, crescere e maturare durante il trentennio col maggiore grado di sviluppo economico che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto (lo ha detto Bodei!). E, forse, questo piccolo particolare qualche differenza la fa.
Ma il vero problema è ancora un altro: che in virtù di quel boom che a loro ha consentito di realizzare – quantunque con fatica – sogni, aspettative, ambizioni, il loro futuro era certo – non dico ovvio, scontato, automatico – nel senso che funzionava la relazione di causa ed effetto: impegno-ricompensa. Sono loro, la generazione dei nostri padri, che ci ha inculcato l’idea – valida per la loro generazione – che se ti impegni, se studi, se ce la metti tutta, alla fine attieni ciò che ti è dovuto.
Il futuro, loro, lo hanno intravisto, avvicinato (lentamente, sì, e con fatica) ma alla fine lo hanno toccato con mano. Noi, invece, lo abbiamo visto che si stagliava nitido all’orizzonte, ne abbiamo seguito la rotta, ma quando è stato il momento di toccarlo, si è disgregato come le immagini su uno schermo di una vecchia televisione a tubo catodico che sfrigola nell’assenza di segnale.
Ora non voglio neanche dire che la generazione che ci segue – loro sì: i nativi digitali – staranno meglio di noi dal punto di vista del “pane da spartire”: forse per loro ce ne sarà ancora di meno; e forse non potranno godere neanche di quel che gli passeremo noi – come la generazione dei nostri genitori (ha ragione Annarosa Macrì) ha fatto e sta facendo con noi. Ma loro, i nostri figli (quei pochi che la mia generazione sarà riuscita a mettere al mondo) avranno meno certezze sulla quale costruire le loro aspirazioni, le loro attese, i loro sogni. E, di conseguenza, molte meno delusioni, frustrazioni. Perché peggio del “non avere” c’è il “desiderare di avere”, “pensare di poter avere”, “avvicinarsi sempre di più all’avere… e non avere mai”.
Ecco: se dovessi definire con una parola la mia generazione, non avrei dubbi: quella dei frustrati. Oppure, se preferite, semplicemente: “generazione call center”, quella, insomma, “con tutta la vita davanti”. Fino alla morte.

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