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L’approccio al mondo del lavoro arrivò presto (relativamente) per me. Erano i rutilanti anni dell’Onaosi, a Perugia.  Io e la mia amica Nancy decidemmo che era ora di emanciparsi, di avere denaro (erano ancora i tempi della lira) nostro. Da spendere a piacimento. 
Volantinaggio fu la parola magica. Distribuivamo messaggi pubblicitari di Jean Luis David, ai tempi il nostro parrucchiere. Montagne di volantini pubblicitari. Quintali di volantini pubblicitari. Ci veniva a prendere a metà mattina un tizio e ci portava, di volta in volta, in un quartiere diverso. Loci, a noi residenti in centro, totalmente sconosciuti. Non fidandosi: “tanti li buttano nel cassonetto sa” ci seguiva a distanza, o organizzava blitz a sorpresa. Infilavamo volantini in cassette pubblicitarie per ore e ore.  Interminabili ore.
L’apoteosi la raggiungemmo il giorno della fiera. Lo dovevamo dare in mano alle persone. Un incubo. Tornate in collegio, la sera, decidemmo di mollare. Ad un orario da noi poco frequentato (tra le sei e le sette del mattino) depositammo pacchi e pacchi di manifestini sulle panche di legno che si trovavano prima di entrare in sala mensa. Fu un caso. Credo solo oggi a distanza di …anni, confesso che fummo noi  a mollarli lì. 
Con quei primi soldi comprai un paio di Pancaldine color ocra. Ancora oggi a ripensarle mi brillano gli occhi. 
Per un po’ mollammo la presa, finchè non ci convincemmo che il prossimo lavoro doveva essere esotico, avventuroso. Niente di banale o ripetitivo, ma pieno rimandi e poesia. Cosa meglio della raccolta dell’uva? Anche in questo caso ci venne a prendere, all’alba questa volta, un  tipo (allora disconoscevo la parola caporalato, giovin innocente ero) che ci stipò in un camioncino, con tanti altri avventurosi come noi. Esperti, gli altri, però. 
Noi avevamo una nostra romantica idea di come ci si dovesse conzare per raccogliere uva. Ci pensammo quasi tutta la notte. Alla fine optammo per le indispensabili (all’epoca) Superga blu, debitamente scolorite dopo bagno in mare in originali acque ioniche, jeans stretto, camicia azzurra, felpa finto sdrucita e giacchetto di pelle, che la sera faceva freddo, ci avevano detto. Immancabile la collanina di perline. Molto glam. Du deficienti  a metà tra la tardiva  figlia dei fiori e la zecca (borghese). Ovviamente sul camioncino, tutti erano con scarpe da lavoro, pantaloni pesanti, maglioncini e cappellino “che di giorno il sole picchia, cocche”. Nemmeno nel deserto tunisino avevo assistito a sì tanta escursione termica. Eravamo state assunte per cinque giorni di lavoro da una cooperativa di ragazzi, leninisti di mestiere, conosciuti all’Università. Ci avevano ammaliato raccontandoci di feste di fine raccolto, bevute, divertimenti. Già. 
Appena sbarcate davanti a noi la vista di infiniti filari. Ci misero in mano una forbice e ci affidarono, per la prima mezz’ora, a uno esperto. Che l’uva la devi sapere tagliare. Mica volevamo essere responsabili della morte di un’intera vigna.  
Dopo la prima ora iniziò il cerchio alla testa. Sole appalla. Dopo due ore e mezzo i primi crampi alle dita. Allo scoccare delle cinque ore ero sicura non sarei mai più tornata alla posizione eretta.  Ci facevamo dormire in un capannone con i bagni in comune. La sera crollavamo distrutte. Ne uscimmo con piaghe alle mani, ai piedi, la schiena spezzata. E allucinazioni da Sagrantino. Ancora oggi l’odore del mosto mi dà la nausea. 
Neanche ricordo che ci feci con quei soldi. Forse finii col spenderli in manicure. 
Un giorno decisi che era il momento di cambiare look, evento che mi procurò, l’ennesimo lavoretto. Era da Jean Louise David, si torna sempre sul luogo del delitto, per farmi rasare, o giù di lì, quando il tipo cacchio cacchio mi fa: “Stiamo lanciando un nuovo magnifico colore, il grigio perla. Ti va di provarlo? Magari poi facciamo le foto per i cartelloni pubblicitari”. Figuriamoci, già mi vedevo: la modella che arriva del Sud. Dissi sì. Ovvio. Fu tremendo, il colore sarebbe stato male a chiunque (chiunque davvero, giuro). E La foto era presa di nuca, con un accenno di profilo. Insomma ero io, sulla fiducia. Rimasi color pulcino albino tre giorni. Tre di troppo. 
Poi abbandonai Perugia per la Capitale. Una nuova vita. Mi fidanzai. La famiglia del tipo aveva una società di amministrazione di condomini. Si aprì un nuovo mondo davanti a me. Quello delle portinerie. Di norma lavoravo in ufficio. Ma poi arrivava l’estate. E per me iniziava il periodo delle sostituzioni dei portieri in ferie. L’esordio fu in un condominio ai Parioli, elegante e discreto. Erano ancora lontani a venire i giorni di Renée, la portinaia colta de L’eleganza del riccio, che ne avrei avuto di che togliermi soddisfazioni, altrimenti. La summa della mia carriera in portineria avvenne però quando fui mandata a via Piccolomini, dove all’ora di pranzo, dopo aver passato retino, rastrellato prato e senza disturbare i signori condomini, mi era consentito fare il bagno in piscina. Ne venne fuori un’abbronzatura niente male. Andò avanti per quasi sei anni. 
Poi l’amore finì. Ma io avevo già trovato la strada della mia vita (una delle mie vite). Gli studi notarili. Otto anni ci ho vissuto dentro. Anni di stipendi regolari, di tredicesime. Di ferie pagate e fuori busta a Natale. Anni dorati e felici.
Poi sono successe cose. Molte. Non tutte belle. Ho lasciato, Roma, il lavoro. La mia vita di un tempo. Giunta a casa,  come San Paolo nel deserto, sono stata folgorata, non da nostro Signore, ma dalle parole. Dall’odore delle rotative.
E con un arco temporale, che manco l’Enterprise a curvatura, arriviamo all’oggi.
I giorni della precaria. Attempata. Ostinata.
Voi, invece, che tipo di lavoratori siete?

 

ps tutto ‘sto papiello per dire che non ho mai lavorato sotto la tutela dell’articolo 18.
Quindi il tema mi appassiona, lasciandomi però fredda.  
  

 

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