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“La bellezza non salverà nulla, se noi non sapremo salvare la bellezza” (Salvatore Settis) 
 
Io ho avuto una tata, si chiamava Viruzza ed era una ex prostituta analfabeta. Elvira, detta Viruzza a Menzacapa è entrata a casa mia che ero una ragazzina. Non era una vera tata, è arrivata come colf, “quella che aiuta mamma nei servizi”, è diventata una persona di fiducia, un riferimento, una a cui si è voluto bene. Tanto. 
Viruzza non sapeva né leggere né scrivere, a malapena faceva la sua firma. Parlava una lingua sua, la capiva sostanzialmente solo mia madre, “a signora mia”, come la chiamava lei. Io ho un nome facile, senza santi, ma facile. Mio fratello Edoardo, per lei e Luciano “delle uova”, altro uomo incredibile di cui prima o poi definirò il ricordo, era don Everardero. In sostanza, secondo loro si chiamava come mio nonno Aldo, don Arbero, per l’appunto. In ogni caso era il dottorino, anche se ancora andava alla scuola media, secondo loro quello sarebbe diventato. Così è stato. Io mi sarei dovuta sposare  e vabbè, lasciamo stare. Non tutte le previsioni riescono con il buco e poi non è ancora detta l’ultima parola. 
Viruzza andava a messa tutte le mattine e si confessava una volta a settimana, cosa lo sapeva solo lei. Dopo una vita di sofferenza aveva la sua strada, la sua casa, il suo lavoro. I peccati, se pure di peccati si era trattato, erano relegati in un passato di cui mai parlava, se non per accenni involontari.
Aveva avuto una vita che dire difficile è riduttivo. Violentata bambina dal padre e poi, sostanzialmente, venduta. Divenne una puttana da Casino. Anzi, la “puttana” per eccellenza. Era bellissima e quando la portavano in tour, usava così, faceva sempre il pieno di visite. Doveva esserle successo qualcosa con qualche militare di colore, ne aveva il terrore. Non odiava gli uomini. Di molti non aveva nessun rispetto, che è peggio, dell’odio.
Aveva un cane, Cico, lei lo chiamava Cicaa, strascicando la “a”, un bastardino tutto pelo dall’istintiva intelligenza che la adorava. Lo aveva trovato nel vicolo dove abitava, si erano guardati e non si erano lasciati più. La seguiva ovunque, ogni tanto la precedeva, quando lo vedevi sapevi che da lì a poco sarebbe arrivata lei. Ogni tanto, quando doveva fare più giri, gli diceva “va addu a signora mia”, lui, incredibilmente capiva e si piazzava davanti alla porta di casa mia. Quando è morto, lei è morta poco dopo. Affetti oltre l’affetto. Oltre la vita e durante.
Votava sempre a ogni elezione, ci teneva a mettere quella “crucia su crucia”. Votava democristiano, mai falce e martello, erano gli anni  in cui nelle chiese si faceva politica, molta politica, e aveva quindi sviluppato un odio, solo elettorale,  verso i comunisti. “Quelli che ti prendono la robba e non credono a Gesù”. Inutile discuterci, su alcune cose era irremovibile. E’ morta prima che il proliferare di simboli e la scomparsa dei più noti la inducesse a non votare più.
Per un periodo abitammo in campagna, da mia nonna Mària. Lei veniva anche lì ed era l’unica che sapeva tenerle testa, l’unica che trovava il coraggio di risponderle. Quando la Mària le diceva qualcosa che secondo lei non andava bene rispondeva: “Io faccio solo quello che dice la signora mia” e chiudeva il discorso. Credo sia stata l’unica cui mia nonna non ha mai ribattuto. 
Negli ultimi tempi, era in là con gli anni e provata da una serie di malanni ossei, le avevamo affiancato una collaboratrice, mandarla via sarebbe stato un delitto, quindi veniva, tutte le mattine alle sette, si sedeva su una sedia e diceva alla “ragazza” cosa, ma soprattutto come doveva fare le cose. Come voleva fossero fatte dalla “signora mia”. La riprendeva come mia madre mai si sarebbe sognata di fare. Aveva chiesto lei l’aiuto dell’aiuto. “Abbiamo bisogno di qualcuno”, aveva detto un giorno. E quel qualcuno arrivò, anche se non era nel budget, anche se si rinunciò a qualcosa. Fu un periodo divertente quello di Viruzza la governante. Quando è morta, io vivevo già fuori, è come se si fosse chiuso un periodo. Si è chiusa la porta dell’adolescenza e di diritto, prima ancora che per tempo e anagrafe, sono entrata nel mondo degli adulti. 
Quando arrivò a casa mia era una donna pacificata. La sua chiesa, il suo basso al Ciglio della Torre, il suo Cico, la nipote adorata, il suo lavoro. Noi. Ci voleva bene e noi l’abbiamo amata. Per i suoi consigli, la compagnia che ci faceva quando i miei non c’erano, le battute involontarie, la saggezza che nasceva dal dolore. Quella sua capacità istintiva e innata che le aveva fatto superare il passato semplicemente lasciandolo lì. Nel passato.  Quel suo affetto sincero e disinteressato. 
Non credo di aver più incontrato molto, da allora. 
Mi è venuto in mente perché ieri era Santa Elvira, che per noi da allora è stata sempre Santa Viruzza, e mia madre su facebook ha scritto delle bellissime parole per ricordarla. 

La bellezza non salverà nulla, se noi non sapremo salvare la bellezza” (Salvatore Settis

 

 Io ho avuto una tata, si chiamava Viruzza ed era una ex prostituta analfabeta. Elvira, detta Viruzza a Menzacapa è entrata a casa mia che ero una ragazzina. Non era una vera tata, è arrivata come colf, “quella che aiuta mamma nei servizi”, è diventata una persona di fiducia, un riferimento, una a cui si è voluto bene. Tanto.

 Viruzza non sapeva né leggere né scrivere, a malapena faceva la sua firma. Parlava una lingua sua, la capiva sostanzialmente solo mia madre, “a signora mia”, come la chiamava lei. Io ho un nome facile, senza santi, ma facile. Mio fratello Edoardo, per lei e Luciano “delle uova”, altro uomo incredibile di cui prima o poi definirò il ricordo, era don Everardero. In sostanza, secondo loro si chiamava come mio nonno Aldo, don Arbero, per l’appunto. In ogni caso era il dottorino, anche se ancora era alle Medie, secondo loro quello sarebbe diventato. Così è stato. Io mi sarei dovuta sposare  e vabbè, lasciamo stare, non tutte le previsioni riescono con il buco e poi non è ancora detta l’ultima parola. 

Viruzza andava a messa tutte le mattine e si confessava una volta a settimana, cosa lo sapeva solo lei. Dopo una vita di sofferenza aveva trovato la sua strada, aveva la sua casa, il suo lavoro. I peccati, se pure di peccati si era trattato, erano relegati in un passato di cui mai parlava, se non per accenni involontari. Aveva avuto una vita che dire difficile è riduttivo. Violentata bambina dal padre e poi, sostanzialmente, venduta. Divenne una puttana da Casino. Anzi, la “puttana” per eccellenza. Era bellissima e quando la portavano in tour, usava così, faceva sempre il pieno di visite. Doveva esserle successo qualcosa con qualche militare di colore, ne aveva il terrore. Non odiava gli uomini. Di molti non aveva nessun rispetto, che è peggio, dell’odio.
Aveva un cane, Cico, lei lo chiamava Cicaa, strascicando la “a”, un bastardino tutto pelo dall’istintiva intelligenza che la adorava. Lo aveva trovato nel vicolo dove abitava, si erano guardati e non si erano lasciati più. La seguiva ovunque, ogni tanto la precedeva, quando lo vedevi sapevi che da lì a poco sarebbe arrivata lei. Ogni tanto, quando doveva fare più giri, gli diceva “va addu a signora”, lui, incredibilmente, capiva e si piazzava davanti alla porta di casa mia. Quando è morto, lei è morta poco dopo. Affetti oltre l’affetto. Oltre la vita e durante.

Votava sempre a ogni elezione, ci teneva a mettere quella “crucia su crucia”. Votava democristiano, lo scudocrociato, mai falce e martello. Erano gli anni  in cui nelle chiese si faceva politica, molta politica, e aveva quindi sviluppato un odio, solo elettorale,  verso i comunisti. “Quelli che ti prendono la robba e non credono a Gesù“. Inutile discuterci, su alcune cose era irremovibile. E’ morta prima che il proliferare di simboli e la scomparsa dei più noti la inducesse a non votare più.

Per un periodo abitammo in campagna, da mia nonna Mària. Lei veniva anche lì ed era l’unica che sapeva tenerle testa, l’unica che trovava il coraggio di risponderle. Quando la Mària le diceva qualcosa che secondo lei non andava bene rispondeva: “Io faccio solo quello che dice la signora mia” e chiudeva il discorso. Credo sia stata l’unica cui mia nonna non ha mai ribattuto. 

Negli ultimi tempi, era in là con gli anni e provata da una serie di malanni ossei, le avevamo affiancato una collaboratrice, mandarla via sarebbe stato un delitto, quindi veniva, tutte le mattine alle sette, si sedeva su una sedia e diceva alla “ragazza” cosa, ma soprattutto come doveva fare le cose. Come voleva fossero fatte dalla “signora mia”. La riprendeva come mia madre mai si sarebbe sognata di fare. Aveva chiesto lei l’aiuto dell’aiuto. “Abbiamo bisogno di qualcuno“, aveva detto un giorno. E quel qualcuno arrivò, anche se non era nel budget, anche se si rinunciò a qualcosa. Fu un periodo divertente quello di Viruzza la governante. 

Quando è morta, io vivevo già fuori, è come se si fosse chiuso un periodo. Si è chiusa la porta dell’adolescenza e di diritto, prima ancora che per tempo e anagrafe, sono entrata nel mondo degli adulti. 

Quando arrivò a casa mia era una donna pacificata. La sua chiesa, il suo basso al Ciglio della Torre, il suo Cico, la nipote adorata, il suo lavoro. Noi. Ci voleva bene e noi l’abbiamo amata. Per i suoi consigli, la compagnia che ci faceva quando i miei non c’erano, le battute involontarie, la saggezza che nasceva dal dolore. Quella sua capacità istintiva e innata che le aveva fatto superare il passato semplicemente lasciandolo lì. Nel passato. Quel suo affetto sincero e disinteressato. Non credo di averne più incontrato molto, da allora. 
Mi è venuta in mente perché ieri era Santa Elvira, che per noi da allora è stata sempre Santa Viruzza, e mia madre su facebook ha scritto delle bellissime parole per ricordarla. 

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