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“Hacker”

 

Chi può avere un dialogo con la lavatrice computerizzata? Chi può disorientare il software dell’irrigatore e mandare in tilt le auto a guida autonoma? L’hacker. Ma l’hacker non viola i sistemi informatici per fare soldi. 

L’hacker sgama chi ruba i dati. Abile nella programmazione ed esperto di reti telematiche, scardina i sistemi chiusi per diffondere informazioni e renderle accessibili a tutti. L’hacker ama l’open source (i programmi che non sono protetti da diritti e che sono utilizzabili e modificabili liberamente), trasmette la sua conoscenza e le sue competenze, arriva perfino a servire lo Stato, intercettando criminali e terroristi.

Non è quindi un pirata informatico, ma un attivista con un’etica che trasgredisce conquistando gli spazi virtuali a spallate. “Hacker” deriva da ‘to hack’, ‘fare a pezzi’, nasce negli USA e cresce con internet fino a diventare ideologia e controcultura. 
Nel mondo di oggi, pieno di oggetti connessi, l’hacker ha le chiavi per aprire ogni cosa. Ed eccoci nel campo della cybersecurity (la sicurezza informatica) ma non è tutta distopia, cioè uno scenario completamente negativo. L’evoluzione tecnologica si compone sempre di parti utopiche e parti distopiche, cose che ci piacciono e cose che ci spaventano. 

Anche senza accorgersene, molti stanno già hackerando se stessi con il biohacking, stanno cioè hackerando la propria vita (dal greco “bios”) per trasformarsi e diventare migliori. Il biohacking è infatti un insieme di pratiche per potenziale le nostre capacità fisiche e mentali attraverso sostanze e farmaci, diete, esercizi, meditazione, psicoterapia, chip sottocutanei. 

L’imprenditore russo Serge Faguet, guru del biohacking che lavora in Silicon Valley, si è impegnato tutti i giorni per anni. A conclusione dell’esperienza ha scritto un articolo dal titolo: “Ho 32 anni, ho speso 200.000 dollari facendo biohacking. Sono diventato più calmo, più magro, più estroverso, più sano e felice”.
E siamo solo agli inizi.

 


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