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Il Centro di permanenza per il rimpatrio di Bari Palese

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È bufera sul Centro di permanenza per il rimpatrio di Bari Palese. La Procura del capoluogo, infatti, ha chiuso le indagini su una presunta frode nell’esecuzione delle prestazioni di assistenza e sorveglianza sanitaria degli immigrati. L’avviso è stato notificato a quattro persone: Antonio Manca, presidente della cooperativa Badia Grande di Trapani, aggiudicataria dell’appalto per la fornitura di beni e servizi relativi al funzionamento del Cpr di Bari; Marianna Bello, direttrice della struttura fino a febbraio 2021; Giovanni Cimino, referente dell’Associazione Paceco Soccorso, affidataria del servizio di assistenza medica e sanitaria; Antonino Tartamella, medico responsabile del presidio sanitario del Cpr fino a dicembre 2019.

I reati contestati sono, per tutti, la frode nell’esecuzione del contratto di affidamento, in particolare, del servizio di assistenza sanitaria e, per tre degli indagati, la violazione delle misure di sicurezza sui luoghi di lavoro, per la mancata esecuzione delle visite mediche di primo ingresso, con il connesso rischio della diffusione di malattie infettive.
Le indagini della squadra mobile, coordinate dal pubblico ministero Michele Ruggiero, sono partite nel 2019 dopo una serie di rivolte da parte degli ospiti del Centro.

A dicembre di quell’anno, i migranti incendiarono tre delle quattro sezioni rimaste integre dopo le precedenti proteste del 27 aprile. In quell’occasione furono incendiati materassi e suppellettili e alcune persone salirono sui tetti della struttura. Tre migranti tentarono la fuga, ma rimasero feriti cadendo e furono trasportati al Policlinico di Bari. La notte tra il 14 e 15 dicembre del 2018, scoppiò un’altra rivolta a pochi giorni da un tentativo di evasione di massa. Alcuni reclusi incendiarono le celle, devastando alcune stanze contenenti documenti e allagarono i corridoi.

Ribellioni dettate, a detta degli ospiti del Centro di permanenza per il rimpatrio, proprio dalla mancanza di assistenza sanitaria. Non si esclude inoltre che i disservizi siano proseguiti nel successivo periodo Covid e che il Cpr di Bari sarebbe stato «fraudolentemente mantenuto senza assistenza medica per cinque giorni la settimana, con una inadempienza che si estendeva anche alla mancata effettuazione della visita medica di controllo al momento dell’ingresso dei nuovi ospiti e alla fornitura di medicinali e medicamenti».

La cooperativa, che tuttora gestisce il centro, avrebbe dovuto fornire «assistenza sanitaria per 48 ore settimanali con reperibilità del personale medico, in modo da garantire un’assistenza medica giornaliera, con ore distribuite su 5-6 giornate lavorative e copertura in reperibilità degli altri periodi». Invece, si legge nelle imputazioni, «ricorrevano allo stratagemma di assicurare la presenza in loco del medico solo per 48 ore consecutive e al più per 2 o 3 giorni la settimana, al termine delle quali il medico abbandonava il Cpr facendo rientro nella propria residenza ad Erice, in Sicilia, da dove, di fatto, non garantiva la propria reperibilità e il tempestivo rientro al Cpr di Bari».
Il Centro di permanenza di Bari ha riaperto nel 2017 con 126 posti e cambiando di fatto la sua funzione.

Fu chiuso, infatti, quando si chiamava ancora Cie (Centro di identificazione ed espulsione) in seguito ai danneggiamenti riportati alla struttura dalle rivolte dei migranti avvenute tra il 24 e il 29 febbraio 2016. Nell’agosto 2017 il tribunale di Bari aveva condannato «la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno a pagare un risarcimento di 30mila euro per danno all’immagine in favore del Comune di Bari per la inumanità del Cie» paragonandola a «luoghi rimasti saldamente legati in senso negativo alle strutture di costrizione e di sofferenza di esseri umani che vi erano collocati, come Auschwitz, Guantanamo e Alcatraz».

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