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di FRANCO CIMINO
Quell’undici settembre Dio volse le spalle al mondo, ordinò al sole di togliere la luce al giorno, al fumo acre e denso di orrore e paura di sostituirsi alla notte, al sangue rappreso nell’odio e nell’ignoranza di cambiare l’odore del vivere e al silenzio assordante di cancellare i rumori della metropoli. E fu subito buio alle 8,46 di una bella giornata di un’estate che non voleva finire. L’immensa potenza del mezzo televisivo s’impose cinicamente su ogni cosa e convocò in ripresa diretta l’umanità intera a vedere l’inizio della fine del mondo. Milioni di persone, me compreso, poterono toccare con gli occhi il dramma che, con le torri gemelle, cadeva su tutti. Ancora lo chiamano terrorismo islamico o reazione insulsa di un pazzo scatenato e, invece, fu guerra. Guerra vera. Nuova, imprevedibile, inarrestabile. Distruttiva potenzialmente più di tutte le guerre convenzionali, perchè non si svolge dentro confini territoriali definiti, contro un nemico posizionato. Si muove improvvisa, di nascosto, ovunque e contro obiettivi non militari. In qualsiasi ora e giorno di un anno, un mese e un giorno che non si può prevedere. È guerra feroce perchè dichiarata dall’odio accecante di una “civiltà” contro un’altra, la storia di una realtà contro l’Occidente. Nel nome di un Dio contrapposto all’altro, di una religione contro le altre. E non è vero che la follia omicida – insita in tutte le guerre, non potendosi mai concepire quale giusta una qualsiasi guerra – di Al Qaida non avesse un obiettivo strategico. Per quanto potesse risultare impossibile raggiungerlo, la guerra “santa islamica” si proponeva un duplice obiettivo: mettere in ginocchio l’Occidente, estendere la presenza islamica nel mondo. Inoltre, chiamare alla mobilitazione i fedeli di ogni parte e costruire, a partire dal nord Africa e in tutti i paesi arabi, la grande nazione islamica, potente più di qualsiasi altra per via delle ingenti risorse, dall’oro al petrolio, dal gas ai diamanti, presenti sul proprio territorio. Per raggiungere lo scopo occorreva colpire il simbolo dell’Occidente, la sua guida politica e culturale, il suo guardiano armato: l’America. «Allah lo vuole, il supremo vi chiama per liberare i popoli dall’oppressione e i poveri dalla ricchezza smodata di chi li deruba», era la parola d’ordine per immolarsi, al prezzo della propria vita, sull’altare della guerra con il Male. Quella prima battaglia dell’undici settembre fu vinta, purtroppo, e non soltanto perchè morirono circa tremila persone, colpite vigliaccamente nell’assolvimento del quotidiano vivere. Ma perchè, abbattendo il simbolo dell’America “avanzata”, la Nazione più potente del mondo sarebbe stata umiliata davanti al mondo stesso. La sua invincibilità sarebbe stata mortificata più di quanto non lo sia stata in Vietnam quarant’anni prima. L’invulnerabilità del suo territorio sarebbe stata spezzata come un grissino e loro, gli americani, sarebbero apparsi come bambini indifesi per l’insensatezza e l’insipienza dei propri padri. C’era di più: che colpendo l’America, madre protettiva e amorevole di tutti i paesi occidentali, tutti i popoli si sarebbero sentiti afflitti e desolati. Abbandonati. Perennemente spaventati, quando la paura insuperata diventa debolezza diffusa, impazzimento sospeso. Per questi motivi, oltre che per l’umana pietà e lo sdegno irrefrenabile dinanzi a quell’orrore, quella parte – la più grande – del pianeta si sentì chiamata a quella tragedia, ne divenne per tutti gli anni a venire componente a pieno titolo. Mai come in quel giorno tutti ci sentimmo americani, perchè mai come in quel giorno l’America ci rappresentava. L’America eravamo noi, quel noi esteso su vasti confini. L’Unione Sovietica non c’era più, il comunismo come guida politica dei popoli sottomessi al capitale, e come strumento di lotta degli oppressi contro gli oppressori, era stato da se stesso sconfitto sotto i colpi del suo clamoroso fallimento. S’apriva un nuovo fronte, nel quale ricchi e poveri di questa parte si sentivano egualmente minacciati da un nemico vero, qual è quello rappresentato da un’idea assoluta, in cui religione, politica, società, persona, economia, Stato, sono un tutt’uno dalla prima discendente. Sono passati dieci anni da allora e il fatto che coincidano con l’uccisione di Bin Laden e la decapitazione di tutto il vertice di Al Qaida non toglie nulla a quella tragedia e non restituisce neppure in parte la serenità perduta o giustizia per le vittime innocenti. Sì, il mondo è meno brutto quando scompaiono tipacci come Bin Laden, Saddam Hussein, Gheddafi e, prima ancora i Ceaucescu dell’Europa Orientale. Ma l’introduzione di un nuovo metodo di guerra e le motivazioni che l’accompagnano rende il pianeta assai insicuro e tutti gli uomini nel mondo assai esposti a gravi pericoli. Si pensi alla tragedia consumatasi un mese fa a Stoccolma e alle tante giovani vite sottratte a quella nazione. È bastato che un pazzo, o meglio un cretino, si armasse di tutto punto per compiere, dopo farneticanti proclami via internet, due stragi nella stessa giornata: la bomba in pieno centro e la carneficina in un campo scuola per militanti politici. Si dirà che i paesi del Nord Europa siano impreparati alla loro difesa, ed è sicuramente vero. Ma chi può sentirsi oggi sicuro in una piazza, in un treno, in una metropolitana di Roma, Parigi, o Londra o Mosca e via dicendo? Se anche si blindassero, come pure viene fatto, gli obiettivi cosiddetti sensibili chi può essere sicuro che la guerra di civiltà o la follia umana non vada comodamente a colpire nei milioni di posti non adeguatamente protetti? E come si potrebbero impiegare le ingenti necessarie risorse per la difesa “passiva” dei territori, in una crisi economica così pesante da rendere difficile la stessa sopravvivenza delle società e la vita stessa delle persone? Il mondo è perennemente in guerra, e dieci anni di conflitti, convenzionali e non, aperti e segreti, armati o diplomatici, sono francamente insopportabili. Qualsiasi cosa volessero affermare studiosi, osservatori ed economisti, circa le cause che hanno prodotto l’attuale crisi economica globale, non si può tacere la principale: la paura. La paura dell’America dell’undici settembre, che ha invaso tutto il mondo, e popoli e nazioni e stati ed eserciti. Quella paura ha reso fragile la superpotenza, ne ha leso la sua autorita’, ne ha fiaccato il suo spirito guida delle nazioni progredite. La sua pesante crisi economica, mascherata dall’antico prestigio e dal suo vecchio gigantismo, ne è la riprova, come lo è il contagio che ne è seguito. Occorre con coraggio ammettere che gli USA non si sono mostrati all’altezza della sfida, perchè la debolezza della sua leadership l’ha portata a non capire e a reagire contraddittoriamente. Da una parte, mostrando i muscoli e, dall’altra, non riuscendo a muovere la sua forza diplomatica e “segretamente” persuasiva. Paradossalmente la caduta, per sua stessa mano, dei vari dittatori che pure ha aiutato per la difesa dei suoi interessi economici, ha rappresentato un altro duro colpo alla sua forza. Lo stesso Barak Obama si è mostrato inadeguato a rappresentare il suo motto elettorale, perdendo, per le preoccupazioni di politica interna, l’opportunità che il mondo gli offriva di essere il leader dell’umanità. Quello che avrebbe lavorato per la pace e per l’uguaglianza dei popoli, e per la crescita dei popoli liberati. E l’Europa che non c’è, e l’Europa che muore nella pigrizia aggiunge solo l’ultimo tassello a un mondo che, stretto nella morsa economica, rischia di diventare subalterno al potere economico della Cina. Che ancora non si espone e non si rappresenta solo per la sua debolezza politica e ideologica. L’undici settembre allora ha vinto? La sua ombra lunga è destinata a sostituirsi al sole e noi tutti saremo condannati a vivere tra povertà e paura? S’è spenta la speranza sull’umanità? No, io credo di no. Ma a una sola condizione. Che si riprenda a lavorare intorno all’uomo e alle antiche domande che salgono dalla sua attuale difficile esistenza: la sua libertà, il suo diritto a vivere nella propria terra e ad avere una patria riconosciuta, dentro la quale possa costruire, con il lavoro degno, il proprio futuro; il suo diritto a vivere la fede come l’atto della sua intima coscienza. A condizione che la ricchezza sia il frutto della onesta creatività individuale e che questa si attivi solidariamente a costruire ricchezza sociale; che la povertà sia considerata l’offesa piùgrave contro l’uomo e contro Dio; che la democrazia si sostanzi di questi valori. Che, infine, non vi siano più stati direttori o superiori, ma nazioni che operano con altre per costruire la pace vera. Per tutto questo ci sarà bisogno dell’America. Quella che abbiamo sognato da ragazzi. Un’America nuova per un mondo nuovo.

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