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POTREMMO dire che il governatore Pittella è diversamente renziano. Applicando egli la teoria della tolleranza del dissenso interno al partito contro l’ostracismo istituzionale messo in atto dal premier contro i dissidenti. Sono, in realtà, due eccessi. Per quanto si possa dire – come fa il governatore – che oggi il Pd non è più il partito che conoscevamo (è la politica tutta che non è più quella che abbiamo conosciuto fino alla fine del Novecento) è altresì molto singolare la tesi che ognuno possa decidere in una campagna elettorale da che parte stare. Ognuno, ovviamente, che ha una sua reputazione politica legata a un monogramma di partito. Oltre che a un riferimento valoriale. Ma forse è parola grossa. Nel correntone di De Ruggieri si sta tra Pd e Fratelli d’Italia come un signore della destra può stare sui rami di Adduce.
Matera è dentro l’Italia e è dunque un esempio della bailamme dei nostri tempi. Il traguardo europeo meraviglioso raggiunto sembra essere già un contorno servito, appena assaggiato e scartato.
A riprova di come sia difficile il senso vero della partecipazione diversa dalla tifoseria e di come l’economia della cultura sia un processo lungo i cui benefici non possono che essere letti e raccontati e percepiti a distanza. Di tempo sicuramente. A volte anche di luogo. Ai materani, o meglio, a quanti materani interessa che la più prestigiosa rivista del mondo, The New Yorker, abbia raccontato la loro città? Abitudine al bello, disinteresse o pragmatica attenzione per emergenze più prosaiche ed immediate? Forse tutte queste cose insieme, accompagnate da una cura per l’oggi e per la sua rendita immediata.
Insomma la campagna elettorale a Matera ha allontanato – come era prevedibile – il 2019 ( un anno, tra elezioni, estate, insediamento di consiglio e commissioni se ne passa), frantumando quel sentimento di euforia e di bella condivisione che aveva accompagnato tutti sul palco di piazza San Giovanni.
C’era, in quella piazza, la gioia di riconoscersi. Questa campagna elettorale ci dice che le correnti, la politica del rammarico, la mancanza di governo delle differenze, la difficoltà del dialogo e della mediazione, gli ostracismi giocati sugli incidenti giudiziari salvo a dimenticarseli, hanno condito umori velenosi, cupi, recriminazioni.
Ogni clima da campagna elettorale porta divisioni. E non è vero che – come senti dire appena metti piede in città – “ah, sai questa è un posto difficile da capire”. E’ difficile da capire se non si mette naso fuori, se non segui le cronache urbane (sempre meno urbane) che animano il palcoscenico di quest’Italia da operetta, talmente inverosimili da diventare memorabili.
La vera singolarità di Matera è un’altra. Ed è molto triste. La verità drammatica è che dobbiamo ammettere che la cultura non ci ha messo al riparo. Non ci ha salvato. Non ci ha fatto scrollare di dosso la banalità dei nostri quotidiani e interessati conflitti. L’esperienza di Matera dice che è difficile parlare liddove tutti urlano. Da dove ricominciare? Avremmo bisogno di una genesi alternativa. La rissosità palpabile è l’esatto contrario della cura spontanea della città e del futuro che questa vittoria sembrava averci regalato come nuova condizione esistenziale. Invece stiamo sul terreno di sempre, il futuro ancorato a chi i materani andranno a eleggere.
Dovremmo augurarci quello che teorizzava Josif Brodskij nel discorso sulla noia.
Dobbiamo augurarci di affondare subito, assicurandoci la piena visione del peggio. In genere quanto prima si tocca il fondo più facilmente si torna su.

l.serino@luedi.it

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