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COSENZA – Il fiume scorre lento e indifferente. Lima via dagli argini, ogni giorno, una fetta di terreno, briciole, zolle. Un nulla. Ma lo fa di continuo senza che niente possa fermarlo. Né argini artificiali, mai costruiti neanche dopo l’alluvione di un anno fa, né la barriera della natura, alberi, arbusti, canneti, estirpati dall’uomo (sempre lui il colpevole) per far posto a coltivazioni, stradine rurali, capanne. 

Il fiume Crati, un anno fa – era il 18 gennaio – si è ingrossato e non è più rimasto nel suo comodo letto. Ha devastato tutto quello che c’era intorno, inondando anche gli Scavi di Sibari. Oggi quel fango è secco e spaccato (GUARDA LE IMMAGINI), come le zolle del deserto, ma è ancora là a celare le strutture murarie delle antiche case. Solo tre pavimenti con mosaici sono stati ripuliti e riportati alla luce del sole. La maestosa strada, orgoglio dell’area archeologica, corre libera, sostenuta dal lavoro delle sei idrovore che, da sempre e non solo dall’ultima alluvione, portano via l’acqua marina, essendo gli scavi al di sotto del livello dello Jonio. Per il resto i lavori sono fermi. Incagliati in qualche pratica, i fondi stanziati. Bloccata l’unica ruspa che fa capolino, solitaria, sugli argini del fiume, ingentilita solo dal volo di una cicogna bianca. Sembra che in un anno, dopo visite istituzionali, promesse, proclami, tutto sia rimasto immutato. E il fiume, per ora tranquillo e silenzioso in un clima invernale del tutto insolito, sembra inoffensivo. Ma è solo un’illusione. 
 
GUARDA L’ELENCO DELLE ADESIONI ALLA CAMPAGNA “MAI PIU’ FANGO”
 

Lo spiega bene l’ingegnere Massimo Veltri che insieme al professor Battista Sangineto è venuto con noi al capezzale del malato per capire cosa sia successo in questi dodici mesi. E per provare a suggerire cosa si può fare. Da una parte la messa in sicurezza del fiume, prioritaria, con una manutenzione puntuale e urgente. Sono ancora nel letto del fiume interi alberi sradicati e la terra portata via dagli argini ha creato delle isole barriera che deviano il flusso dell’acqua sui bordi, allargandosi pericolosamente verso i terreni. 
«In Calabria esiste un Pai, Piano di assetto idrogeologico – spiega Veltri – che ha un segretario dell’autorità di bacino e un commissario straordinario per il rischio idrogeologico e che dovrebbe occuparsi anche del fiume Crati. Ma esiste un piano per il fiume?». Secondo l’ingegnere occorrerebbe realizzare non solo una barriera longitudinale, ma anche delle briglie trasversali per stabilizzare le eccessive pendenze. E vedere, soprattutto, cosa accade a monte, lì dove il fiume sgorga. Ma c’è un altro nemico finora sconosciuto che mina la sicurezza dei terreni della Sibaritide e a svelarcelo è un uomo che di stagioni lungo il fiume ne ha passate tante, da quando, nel 1962, ha comprato un pezzo di terra che è diventato tutta la sua vita. Si chiama Giorgio Cropanese, mani callose di lavoro, occhi profondi e indagatori, piglio sicuro di chi il fiume lo conosce palmo per palmo. 
 
 
A rovinare gli argini, ci dice guidandoci tra alberi profumati di mandarini e arance, sono stati gli istrici. Animali che in origine vivevano in collina ma che, per mancanza di cibo, negli ultimi anni sono scesi fino al greto, in centinaia, e dove scavano gallerie e tunnel senza posa. Le loro tane bucano il terreno morbido e argilloso riducendolo a un colabrodo, che frana, di continuo, contribuendo ad allargare le sponde. Istrici che, secondo i contadini, sarebbero un fattore determinante dello sgretolamento di questi terreni, la cui presenza è stata segnalata già da un paio di anni a istituzioni e consorzi, senza però avere risposte da nessuno. 
«Ma tanto a noi nessuno ci ascolta – ci dice Giorgio con una smorfia amara – nemmeno quando un anno prima dell’alluvione lo avevamo detto che qui, alla prima pioggia forte, veniva giù tutto. Abbiamo l’elenco delle telefonate, a decine, fatte al Comune e agli altri. Ma non ci hanno ascoltato. E adesso? Adesso non è cambiato nulla». Nessun tecnico a fare sopralluoghi su quegli appezzamenti che si trovano pericolosamente a un passo dal grande fiume, senza barriere, che basta mettere un piede in fallo e la corrente ti porta al mare. Nessuno a lavorare su quella ruspa solitaria sull’argine dove un anno fa c’era solo acqua e fango, freddo e devastamento. Nessuno a ripulire quegli edifici antichi oggi popolati solo da lumache di terra, che in quel fango e in quell’umidità hanno trovato casa. Nessuno.
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