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«Non è proprio così». Il dottore Giuseppe Agneta, corrucciato, non mi asseconda. Ma io voglio convincermene e continuo a girare per le stanze pensando che qui la morte è più dolce.

«Si può morire dannati – mi corregge Agneta – gridando, e si può morire con dignità. Qui si arriva quando la malattia ha vinto e noi smettiamo di occuparcene, come davanti al grano bruciato. Qui non ci sono più malati da curare. Ci sono persone alle quali dedicarsi».

Visitare un Hospice è ricordarsi che la vita è bella. Scelgo quello più difficile da raggiungere, all’ospedale di Stigliano, passando per le Dolomiti lucane, al centro tra il Metapontino, la Val D’Agri, ma con pazienti che arrivano anche dalla Calabria e dalla Puglia. Diciotto posti in tutto, per malati oncologici terminali, raramente tutti occupati.

C’è un continuo ricambio. Qui la fine della vita ti aspetta massimo tre, sei mesi.

«E’ raro sbagliarsi», dice Agneta, l’anestesista, specializzato in cure palliative, responsabile della struttura che qui tutti chiamano casa.

Le stanze con i balconi affacciati sugli alberi, letto singolo con accanto una poltrona allungabile per sentirsi meno soli, una cucina e altre sale comuni e soprattutto la libertà per le famiglie di muoversi senza orario.

Qui dove la morte ti aspetta impaziente puoi trovare il ricordo della vita nei dettagli, i fiori sulle mattonelle davanti alle stanze, il volto di una Madonna giovanissima, la faccia muta ma ancora non smarrita di un vecchio sulla sedia a rotelle con accanto la moglie vestita già a lutto.

Come si fa a lavorare qui? Come si può vivere sapendo che è un conto alla rovescia?

«Qui la morte è in realtà un diniego» – mi spiega la psicologa, la dottoressa Carmela Vitale.

«Negare è una necessità della mente».

Gli ambienti grandi, “il vedo, non vedo” aiutano. Se qualcuno passa in barella non capisci se è sedato o se è morto. E così la speranza ti inganna ancora e il desiderio di vita si aggrappa anche alla voglia di un gelato. Non ti rifiutano nulla. Non è facile relazionarsi con un malato terminale (non ci sono solo vecchi, è passato anche qualche ragazzo, anche se la struttura non è attrezzata per i bambini): da un punto di vista clinico le cure palliative (diverse dalla terapia del dolore ma è meglio rimanere nel vuoto dell’incompetenza) richiedono una specializzazione per il tipo di intervento farmacologico che bisogna fare (anche per come va iniettata la dose).

Nel corpo già aggredito dalla chemioterapia anche infilare un ago richiede qualità. E ti puoi anche trovare davanti a dei paradossi. Non sempre, ad esempio, una dose di antidolorifico ti inibisce le percezioni. «Può capitare anche il contrario», spiega Agneta. E dunque il malato terminale ha bisogno di una equipe multiprofessionale.

Qui c’è una gerarchia orizzontale, non esiste un orario di lavoro, le risorse della sanità e i conti aziendali disegnano lo scenario che si può immaginare, alla competenza limata dalla formazione presso l’hospice Antea di Roma si unisce una encomiabile dedizione dei volontari e dell’assistente sociale.

«La burocrazia non ti lascia in pace neppure alla fine», dice Maria Antonietta Dinisi, «nelle famiglie dove ha bussato il cancro lo sanno. Anche andare a riscuotere la pensione può diventare problematico».

Fu Pierino Quinto, all’epoca direttore generale dell’Asl 5 di Montalbano Jonico, a volere fortemente la struttura. «Fu una battaglia – manco a dirlo – i cittadini volevano un punto nascita, io mi convinsi che in questo territorio avevamo bisogno dell’opposto». Aveva visto giusto, Quinto, che oggi è direttore generale dell’Asm e pensa qui anche a un centro per l’alzheimer.

«Accorpammo anche i posti letto che erano destinati in un primo momento a Matera, si stavano perdendo le risorse, concentrai tutto qui».

E ora Stigliano, bella e splendente sotto il sole dell’estate, è la casa approdo di una donna eterea e senza bocca, come è nella simbologia del dolore silenzioso di un quadro (opera di Lucia Agneta, la sorella del medico) stampato sulla brochure che ti racconta dove ti trovi.

Quinto ci accompagna, la sua lunga esperienza nella sanità ti fa capire come sia importante per un territorio rendere eccellente una specializzazione. Questo di Stigliano non è l’unico hospice della Basilicata.

Ci sono quelli interni all’ospedale San Carlo di Potenza e al Crob (diretti rispettivamente dal dottor Marcello Rizzuti e Pasquale Di Leo), quello di Lauria (affidato al dottor Giuseppe Magno) e una struttura c’è anche a Venosa diretta dal dottor Gianvito Corano. La sanità dovrebbe sempre avere al centro l’uomo e non il paziente. Non sempre succede. Qui di sicuro funziona così.

Durante tutta la visita Agneta non si rilassa un attimo, neppure con lo sguardo. E’ in una condizione di permanente attività. Anche quando torna a casa, lo ammette. E’ l’unico modo per tenere il pensiero altrove e convivere con la morte in agguato vicino a te.

Leggo tutti i messaggi esposti in bacheca lasciati dai familiari delle persone passate da qui.

Come un abete di Natale carico di doni. Riprendo la strada per Potenza, passando per le dolomiti lucane. Mi accompagnano le podoliche che scodinzolano alle mosche. Tutto mi sembra bellissimo.

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