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E’ morto a 98 anni il biologo e genetista Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975. Dulbecco aveva scoperto in America, dove si era trasferito 50 anni fa, il meccanismo d’azione dei virus tumorali nelle cellule animali, scoperta per la quale è stato insignito del Nobel. Nato a Catanzaro il 22 febbraio 1914, Dulbecco si avvicina alla scienza spinto dalla passione per la fisica e arriva alla medicina dopo avere studiato anche chimica e matematica.
È stata una vita lunghissima e piena di successi quella del premio Nobel. Una carriera iniziata 80 anni fa: nel 1930 Dulbecco si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Torino (benchè amasse la fisica), e già dal secondo anno, grazie ai brillanti risultati ottenuti, fu ammesso come interno all’Istituto di Anatomia di Giuseppe Levi, personalità in vista nell’ambito medico e biologico. Qui, dove si occupava prevalentemente di biologia, ebbe modo di conoscere Salvador Luria e Rita Levi Montalcini, che divenne un’ottima compagna di lavoro e con la quale instaurò una profonda amicizia che coltivò anche in seguito. Si laureò a soli 22 anni, nel 1936. Decisivo fu l’incontro con Salvador Luria, che aveva già avuto modo di conoscere, essendo stato anch’egli studente a Torino e interno dell’istituto di Levi. Luria si occupava a quel tempo dei virus (biologia) che infettano i batteri (batteriofagi), e utilizzava come Dulbecco le radiazioni; data la comunanza di interessi, gli offrì la possibilità di lavorare nel suo laboratorio a Bloomington, nell’Indiana (USA), dove collaboravano già personalità di spicco della comunità scientifica. Nell’autunno del 1947 si trasferì negli Stati Uniti, a Bloomington (Indiana). Nel 1949 Max Delbruck, padre della genetica moderna, gli offrì un posto di lavoro al California Institute of Technology di Pasadena, più noto come Caltech, uno dei più importanti laboratori scientifici del mondo. La grande occasione, quella che spianò la strada alle nuove frontiere della ricerca biologica, fu lo studio del virus responsabile dell’Herpes zoster, meglio noto come «fuoco di Sant’Antonio».
Un’altra conquista, sopraggiunse poco tempo dopo, nel 1955, quando il futuro Nobel riuscì ad identificare un mutante del virus della poliomelite, malattia estremamente temuta, che fu utilizzato da Albert Sabin per preparare un vaccino. L’interesse per i virus, si fece sempre più specifico, fin quando sfociò in uno studio del tutto nuovo, riguardante i virus che rendono le cellule cancerose, ovvero capaci di moltiplicarsi incessantemente. L’idea di fondo fu quella di studiare la genesi di un cancro, dovuto, come era già noto, ad un’alterazione genetica, all’interno di queste piccole entità biologiche costituite da pochi geni, a differenza delle cellule animali. Finalmente nel 1968 sopraggiunsero i risultati tanto attesi: «Per indagare l’azione dei geni di questi virus pensai che bisognava prima di tutto capire che cosa ne accadesse all’interno delle cellule rese tumorali. Si supponeva che il virus entrasse nelle cellule, ne alterasse i geni e poi scomparisse, comportandosi come un pirata della strada che investe un pedone ferendolo e poi scappa abbandonando il luogo dell’incidente». L’elemento inedito fu l’individuazione di una sostanza, chiamata antigene T (tumorale), assente nelle cellule «sane» dell’organismo, ma presente sia in quelle infettate che in quelle uccise dal virus. Non se ne conosceva la natura ma era sufficiente per indurre a pensare che qualcosa del virus restasse nella cellula bersaglio; ciò a cui si mirò allora fu l’identificazione di tale sostanza. L’esito fu chiaro, si trattava di DNA virale che si unisce chimicamente a quello della cellula, diventando parte integrante del suo materiale genetico. La scoperta fu clamorosa perchè a questo punto fu semplice dedurre che i geni virali definiti «oncogeni» attivassero quelli cellulari necessari alla moltiplicazione cellulare facendola proseguire incessantemente. La scoperta gli fruttò il premio più ambito, il Nobel. Gli ultimi decenni sono dedicati al Progetto Genoma: l’obiettivo di identificare tutti i geni delle cellule umane e il loro ruolo, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Infine, nel 1999, l’ultimo guizzo, con l’ironia e l’inteligenza tipica del grande scienziato: accetta di presentare Sanremo con Fabio Fazio e Laetitia Casta, diventando rapidamente, con il suo sorriso fanciullesco e l’inconfondibile parlata italo-americana, un idolo dell’Ariston.

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