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POTENZA – Durante il Ventennio, Mussolini e i suoi teorici (Panzini, Pavolini, Starace) tuonavano contro quelli che definivano «cianciugliatori di parolette forestiere», il Duce in persona nel 1923 lanciava una fatwa contro le insegne esotiche dei negozi milanesi e nel 1929 sentenziava che «in Italia si parla italiano» e basta: crearono la mistica del bagnasciuga, in verità una delle poche parole autarchiche arrivate dritte ai giorni nostri, e ottennero esiti parossistici a risentirli oggi: il nemico allora era soprattutto il francese, e così Courmayeur diventava “Cormaiore” mentre “fiorellare” significava avere un flirt. Arrivarono nel 1940 a codificare una legge che riportava l’elenco delle parole straniere vietate – purtroppo il Dizionario della Reale Accademia d’Italia si fermò alla lettera C, e dopo la guerra toccò alla Crusca redigere un vocabolario defascistizzato. E quindi è una notizia che Dario De Luca, sindaco orgogliosamente post-fascista invitato al simposio del circolo Silvio Spaventa Filippi in Municipio, risulti il più “avanti” di tutti quando si parla di, anzi contro l’invasione dell’inglese nell’italiano moderno.

«Mi sa che stiamo facendo una battaglia di retroguardia – esordisce nei suoi saluti a fine convegno –, l’inglese ormai è uno standard, scusate la parola, mia figlia è laureata alla Luiss e lavora in una multinazionale a Milano». Specifica: «Lavora in inglese», ammesso che significhi qualcosa. E ironizza: «Sì, è vero che oggi non vale più neanche il motto “parla come mangi” perché mangiamo hamburger e fish’n’chips». Ilarità nella platea composta soprattutto da insegnanti over 60, con figure degne di nota tipo il signore distinto che consulta la pagina Televideo sullo smartphone (un ossimoro tecnologico). Poi lo scossone autarchico di De Luca contro «I’inquinamento linguistico dei nostri giorni e la sostanziale ignoranza della lingua italiana», il senso è che chi ne ha davvero padronanza non si fa inquinare dagli inglesi.

Il cerimoniere Santino Bonsera e l’ospite Nicola De Blasi, accademico della Crusca e ordinario di Linguistica italiana alla “Federico II” di Napoli ma con un passato, una trentina d’anni fa, nell’università di Potenza, sorvolano purtroppo sulle tante parole confluite dal latino all’inglese e oggi storpiate proprio da noi italiani (tutor pronunciata “tütor” e media “midia”) ma riconoscono un primato della lingua di Dante e Manzoni che spesso proprio in madrepatria viene snobbato in nome di un’egemonia dell’inglese che – apre Bonsera – «offende identità, spiritualità e moralità di un popolo. Usiamo l’inglese per compiacimento e spirito imitativo, in nome di quello che Rosmini definiva “servilismo”. È un vergognoso processo di provincialismo alla rovescia».

E via con le critiche ai vari brand, reading ma anche gli attuali spending review e Jobs Act, che «non conosco… come molti di quelli che lo citano». Risate nel pubblico che riempie la Sala dell’Arco ma anche i primi segni d’insofferenza mentre Bonsera solleva addirittura «problemi di carattere costituzionale: il potere semina fumogeni linguistici»; alle 19,07 in ultima fila scappa un «ma siamo venuti a sentire lui?».

No: alle 19,10 parte De Blasi. Si era intanto convenuto sul fatto che l’inglese è oggi ciò che il latino era un tempo, e si concede l’utilizzo dei tanti “prestiti” che sono un portato soprattutto del lessico tecnologico angloamericano.

Lo stesso De Blasi ammette che è quasi «necessario» utilizzare termini quali sms, mail, persino whatsapp, tutti «promossi finché esisteranno gli strumenti» laddove «altri eccessi sono spesso di breve durata – spiega l’accademico della Crusca – come welfare… ma forse in questo caso dipende dal fatto che ci si pensa di meno…». Perché anche gli anglicismi rispondono a mode passeggere ed elevata mortalità. De Blasi mostra un articolo del Venerdì di Repubblica titolato con “selfie e taggare”, parole pronte ad entrare nei vocabolari. «Taggare è un caso a parte: è un verbo perfetto con la suffissazione in “-are”, tra qualche anno dimenticheremo anche che proviene dall’inglese». Come oggi andiamo da carrozziere o dal parrucchiere anche se non dobbiamo farci sistemare la carrozza o la parrucca, e diciamo “gettonato” senza più collegare il verbo al contesto in cui nacque: l’Italia dei juke-box.

De Blasi ha un eloquio pacato e pungente che conquista la platea, torna sul fallimento di quelle che definisce politiche linguistiche direttive e autoritarie: «Le campagne del fascismo contro le parole “forestiere” produssero il risultato opposto, come quando ai bimbi si dice “non fare così” e in realtà si sta dando loro un’idea. Il vocabolario? È un registratore, non detta legge né ha una funzione normativa o dirigistica, e poi le imposizioni non funzionano mai. Sì, fa compagnia, come la grammatica, ma in classe conviene portarsi un peluche, che è più leggero». Questo per dire che il processo di formazione della lingua è opposto: è il parlato che poi viene messo nero su bianco, non il dizionario a modellare il linguaggio, e l’uso, l’abitudine prevale sulla norma. Altra cosa è la «deriva ludica, l’utilizzo modaiolo e gratuito senza alcuna consapevolezza, in espressioni come “settimana prossima” o nella gestualità del pollice su o del dito medio»: è un fatto che, in una terra di passaggio e mescolanze come l’Italia, nei secoli sono state importate e assimilate parole (e gesti) dalle lingue (e dai costumi) più disparate.

Altra cosa ancora, forse più sottile, è la «funzione eufemistica degli anglicismi, spesso usati per mascherare gli aspetti negativi del burocratese» (è il timore di Bonsera sul Jobs Act).
Il problema è quando si usano gli anglicismi senza saperlo: De Blasi riporta il caso di “speculazione” nel senso di “ipotesi”, un calco mutuato dal linguaggio giornalistico statunitense (ma dimentica di specificare che la radice è latina: speculum, ovvero specchio; e il contesto filosofico), e cita l’accezione peggiorativa.

«Il nostro compito, e quello della scuola, è abituare le persone a pesare le parole che si usano, a dosarle come facciamo con gli ingredienti quando cuciniamo o coi colori ci vestiamo. Poi, certo, tra i giovani e in settori come giornalismo, economia e informatica il linguaggio è più aperto e soggetto a mutazioni. Oggi la realtà è cercare lavoro all’estero, il mercato del lavoro è globale e per i giovani l’inglese è una motivazione, una necessità che nasce da una volontà personale, raramente è un desiderio».

Quando De Blasi cita il “voi” di Benedetto Croce viene in mente il periodo in cui Torino ospitava la “Mostra anti-lei”, Totò rischiava grosso nello sketch in cui Galileo Galilei diventava “Galivoi” e un occhiuto fascistone nel pubblico segnalava la cosa ai piani alti ma Mussolini in persona archiviava la denuncia derubricandola a «fesseria», la rivista femminile “Pericolosamente lei”, inteso come pronome femminile ma questo i censori del regime non riuscirono a capirlo, dovette trasformarsi in “Annabella”.

Il ritorno all’orgoglio di essere italiani è così teorizzato da De Blasi: «Noi italiani siamo bravi a svalutare le nostre cose, invece in Europa non si deve andare come se oltre alla moda non avessimo alcun patrimonio. Basti pensare alla scienza giuridica. Chi studia musica o arte deve sapere l’italiano, c’è una forte richiesta di italiano sia all’estero che in Italia, ad esempio tra gli stranieri che sono una platea potenziale di 5-6 milioni di acquirenti. Anzi, dovremmo iniziare a formare i futuri docenti di italiano per stranieri. Molti italiani non conoscono le lingue straniere e conoscono poco l’italiano: scrivono un ibrido in cui sono presenti il dialetto e la lingua parlata. Oggi si parla di insegnare l’inglese dalle prime classi, e, ciò che mi sembra un doppio salto mortale, insegnare una materia come le scienze in inglese. Una perplessità: chi insegna, il prof di inglese o di scienze? O sarà uno solo a parità di stipendio? E all’università, le scienze saranno studiate solo in inglese dunque l’italiano declasserà a lingua culturale e letteraria ma inadatta a certi argomenti? Sarebbe un arretramento, dopo che abbiamo vinto il nemico latino. Le materie vanno studiate nella lingua d’origine, poi se si vuole in altre lingue. In Accademia abbiamo un’ematologa».

Se al Municipio va in scena l’orgoglio linguistico, nel vicino Grande Albergo il venerdì in terrazza propone un allettante florilegio di letture potentine condite da riflessioni sull’orgoglio autoctono: sei tavolini presidiati da ventenni – afoni nonostante le sollecitazioni finali a fare domande – abbassano la media di un uditorio in cui le insegnanti viste alla Sala dell’Arco sono state sostituite dalla upper class. Il “Letti di sera” di Paolo Albano s’intitola “Potenza mon amour”, tributo di Maria Teresa Imbriani al film su Hiroshima di Alain Resnais. I testi spaziano dall’immancabile Rocco Scotellaro che nel 1943 dipinge in versi la “Sera potentina” in cui via Pretoria è una giostra spenta (come adesso, chiosa qualcuno) agli anni 50 di Guido Piovene che annota l’eleganza dei potentini e le tante profumerie, dai 60 di Vito Riviello all’80 terremotato di Felice Scardaccione fino alla nevicata nella lettura di Gaetano Cappelli e alla poesia vernacolare declamata da un pirotecnico lord con farfallino. Poi si discute del genius loci potentino: «Potenza è una città che cambia il carattere di chi ci abita, imprimendone uno suo proprio» dice Mario Restaino, che da giornalista cita un comunicato della Regione in cui Potenza e Matera sono equiparate come “città dei servizi”. Inizia così ad aleggiare una sorta di strisciante paura di essere scippati. Complessi di inferiorità subito soffocati da un dato: «Abbiamo 23 secoli di storia, Potenza esiste dal IV-III secolo avanti Cristo, Matera dal IX d.C., era un villaggio, altro che Gerico – dice il mattatore in farfallino –. L’ethnos è difficile da caratterizzare antropologicamente, l’unico dato concreto è l’identità storica»; ah, un’ultima cosa: «Il lucano operoso e mansueto? E che siamo, pecore? Orrenda l’operazione di Carlo Levi nella carne viva di questa regione».

Imbriani ricorda la Potenza dei «grandi funzionari pubblici come i giudici che tirarono fuori dal carcere Scotellaro arrestato dai tricaricesi». Cappelli: «Matera non ha solo sassi, ma anche palazzi nobiliari maestosi e con splendidi affreschi. Il carattere dei potentini? Bifasico: l’angoscia del depresso e l’ironia yiddish. E poi l’orgoglio fin dal nome stesso della città, la seconda acqua più buona del mondo, il capoluogo più alto…». E lo studio su Potenza città più triste d’Italia? «Le cose che i giornali scrivono quando non hanno niente da scrivere».

Il finale è da riunione collettiva di autocoscienza: «Siamo più cosmopoliti di Matera». Anche goliardia: «Si viene a Potenza per promozione, punizione o prima nomina». «O pazzia!». Il salotto con affacciata e letture dal laptop è un cenacolo attorno a un iPad da cui spulciare testi da ebook o file in free-download, insomma un bel reading. Ma non ditelo a Bonsera&Co.!

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