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Caro Direttore, la confusione dei temi all’ordine di questi giorni rende difficile operare delle riflessioni, che pur necessitano per restituire un quadro di maggiore chiarezza. Permettimi, pertanto, di apprezzare lo sforzo che tu e i tuoi collaboratori operate quotidianamente nel tentativo di ricondurre ad utile informazione le molteplici voci che si sollevano dal coro della nostra collettività. Da tale bailamme non sfuggono osservazioni critiche per l’Università della Basilicata, di solito utili e gradite, se non quando, come talvolta accade, sembrano mosse da un misto di preconcetto e disinformazione o, addirittura, da un desiderio di controinformazione funzionale ad un modaiolo disegno di destrutturazione delle istituzioni. Né d’altra parte sfuggono ad un eccesso di superficialità alcuni apprezzamenti motivati dal desiderio di esprimere affetto ad un’istituzione che si sente amica, senza però che si evincano con chiarezza le valutazioni sottese alle posizioni espresse. Pertanto, anche in vista del prossimo consiglio della Città di Potenza, che si terrà presso la nostra Università oggi, vorrei offrire alcuni spunti per una riflessione che sono certo tu vorrai cogliere e rilanciare, a trent’anni dall’istituzione dell’Università della Basilicata. Cominciamo da considerazioni di carattere nazionale. Gli ultimi quindici anni hanno segnato per l’università italiana la fase di una prima applicazione dell’autonomia statutaria sancita dall’articolo 33 della Costituzione (le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato). Fase connotata, purtroppo, da una proliferazione di leggi che ha imposto agli atenei di disegnare detta autonomia in una cornice estremamente fluida, vedo, per esempio, le leggi 509/99 e 270/2004, per l’istituzione e la successiva (e significativa) modificazione della riforma dei titoli di studio: laurea (triennale), laurea specialistica poi trasformata in magistrale (biennale), master universitari (di primo e secondo livello), dottorato di ricerca, e da una progressiva riduzione delle risorse destinate alle università e alla ricerca. Con l’ultimo governo Berlusconi si è di fatto consolidata l’idea, invero non in piena discontinuità con i governi immediatamente precedenti, che il livello di finanziamento raggiunto dal sistema universitario italiano non fosse più sostenibile. E tuttavia, invece di avviare una discussione politica sulle scelte da operare per un’eventuale ridefinizione delle sedi universitarie e delle loro funzioni nei contesti territoriali di più immediato riferimento (o anche sulla ridefinizione dei relativi organici), si è scelto di strozzare il sistema con il combinato disposto di varie misure: l’impedimento di ogni forma di assunzione di personale a quegli atenei con rapporto spese fisse-entrate statali superiori ad una soglia fissata; drastica riduzione dei finanziamenti statali; limitazioni sul turn over, con autorizzazione a reinvestire in assunzione di personale solo il 50% (oggi sceso al 20% in ossequio alle misure di spending review) delle risorse derivanti da cessazioni, con la conseguente restituzione allo stato del restante 50% (oggi 80%) delle risorse; blocco dei concorsi per nuovi posti di professore ordinario e di professore associato. Il tutto unitamente al divieto di attivare corsi di studio senza un numero sufficiente, anch’esso fissato, di professori e ricercatori strutturati (c.d. requisiti necessari). Nella stessa misura, la ciliegina sulla torta è data dall’effetto della riforma del sistema pensionistico, che ha indotto ed induce la fuga dal lavoro attivo in anticipo rispetto alla scadenza programmata. Detta situazione, tra l’altro, è ancora in divenire e quello testé descritto rappresenta soltanto il prodromo di un percorso, nel quale siamo già da qualche anno immersi. E’ ormai alle porte la seconda fase, con una più stringente valutazione (in realtà più di processo che di merito) delle singole università, che sarà attuata nei prossimi anni dall’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca), finalizzata a destinare percentuali crescenti del già ridotto finanziamento pubblico in base alla qualità dei servizi offerti, nonché ad avviare procedure di accreditamento dei corsi di studio. È lecito paventare che si stia sperando in un suicidio di alcune sedi per collasso finanziario (o della qualità) o che, quantomeno, se ne attenda l’ingresso in agonia per poterne suggerire la cancellazione o l’accorpamento, in analogia con quanto si è imparato a fare con enti e amministrazioni varie. In questo quadro, la totale assenza di un esplicito disegno politico italiano sul futuro delle singole università, che pur per mandato costituzionale ed ordinamento giuridico sono patrimonio e responsabilità dello Stato, trasferisce di fatto ad ogni sede la piena responsabilità circa le proprie dinamiche di tenuta e di sviluppo, rendendone imprevedibile l’esito a medio e a lungo termine. Cosa è successo e cosa succede in Basilicata. Cito solo alcune questioni chiave. Quanto sopra riferito (trattasi di dinamiche innescatesi a partire dal 2008) lo si era intuito qualche anno prima. Tant’è che, primo e forse unico esempio nazionale, la Regione Basilicata decise di intervenire con una legge di sostegno dell’Università della Basilicata (legge regionale 12/2006), che, nel rispetto dei ruoli istituzionali, pose obiettivi di grande respiro sociale, demandando, come diversamente non avrebbe potuto essere, alla relazione Università-Ministero i compiti di programmazione e di valutazione-controllo delle azioni. Per concorrere agli obiettivi posti dalla legge regionale, l’Università della Basilicata, continuando in un progetto di diversificazione dell’offerta formativa già avviato in autonomia con l’istituzione, ad es., di corsi di studio nei campi dell’informatica, dei beni culturali e delle biotecnologie, ha promosso quattro nuove e impegnative Facoltà (Architettura, Economia, Farmacia e Scienze della Formazione), il cui corpo docente era all’epoca tutto da costruire.Non appena avviato detto progetto, però, ha preso il via la riferita serie di interventi legislativi e normativi drammaticamente restrittivi. Tra il 2008 e il 2012 il Fondo di finanziamento ordinario dello Stato all’Unibas è sceso sostanzialmente da circa 36 milioni di euro a 32 milioni di euro, le norme sopraggiunte sui requisiti minimi di docenza strutturata per i corsi di studio hanno trovato il nostro Ateneo profondamente scoperto (in particolare per le nuove facoltà) e l’emorragia di docenza per anticipazione del fine rapporto ha aggravato profondamente la situazione. Considerando che le spese fisse per il personale si aggirano intorno ai 36 milioni di euro e, pertanto, che il rapporto tra spese fisse e finanziamento statale già ai empi si collocava al di sopra della soglia massima, l’Unibas non avrebbe avuto possibilità, senza il sostegno regionale, di sostituire i 51 docenti cessati dal 2008 (27 ordinari, 15 associati, 9 ricercatori) con i 40 nuovi assunti nello stesso periodo (31 ricercatori e 9 associati) e sarebbe stato costretto, oltre che a cancellare per mancanza di risorse la quasi totalità dei finanziamenti alla ricerca e ai servizi agli studenti (per esempio assegni di studio, borse di dottorato, funzionamento e investimento per laboratori, docenze a contratto, progetti culturali delle associazioni studentesche, etc.), a procedere alla chiusura di altri tre cicli di studio quinquennali, avviandosi così su una china che, alla luce della situazione nazionale, sarebbe stato impossibile risalire. È utile però rimarcare che si è riuscito ad evitare tutto ciò non solo per le risorse messe a disposizione dalla Regione, ma principalmente per l’innovatività dell’impianto della legge regionale, che ha consentito, in un lungo processo di relazioni istituzionali costruite dal nostro Ateneo con governi di colore politico diverso, di sottoscrivere, grazie all’impegno del presidente De Filippo, del ministro Gelmini e del sottosegretario di Stato Viceconte, un esemplare accordo di programma Università-Ministero-Regione, che il sistema universitario italiano tende ad assumere a generale paradigma, come rimarcato recentemente dal ministro Profumo. Tant’altro c’è da dire sulla nostra università e tanto ci sarà sempre da fare. In questo ambito, il mio impegno personale è quello di cogliere ogni occasione per informare e dare risposta ad ogni domanda posta con onestà di intelletto. Ma, senza la coscienza che il finanziamento statale non basta a tenerla in vita, è inutile e fuorviante parlarne. Dopo trent’anni dalla sua istituzione, l’Università della Basilicata e il suo territorio sono indissolubilmente legati ancor più di quanto la stessa legge istitutiva, la 219/81, lasciasse presagire. Ciò ci carica di grandissime responsabilità, certamente per le oltre 9.000 famiglie dei nostri studenti ma anche, e non credo meno, per costruire seriamente quella società della conoscenza che, senza dubbio, rappresenta la vera speranza per il futuro della nostra Terra. La sfida va colta da tutti, muovendosi con intelligenza e innovazione nei limiti che la Costituzione ci impone.

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